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NOTE SULLA SITUAZIONE DEL SINDACALISMO DI BASE E DEL SINDACALISMO IN GENERE

Una riflessione sul sindacalismo di base, sul suo ruolo, prospettive e frammentazione è oggi sempre più necessaria.

Questo articolo di Federico Giusti (“Collegamenti” n. 6/2024) affronta i principali problemi sul tappeto

Per quanto mi riguarda sarebbe arrivato il momento di fare i conti con la esperienza storica del sindacalismo di base a partire dalla sua devastante frammentazione.
Rispetto a 20 anni fa non sono chiare agli occhi della forza lavoro le differenze sostanziali tra le varie sigle del sindacalismo di base e dopo 30 anni di controriforme è cresciuto il senso di sfiducia verso il sindacato tout court.
L’adesione ai sindacati di base è legata non a ragioni di carattere politico ma al lavoro svolto dalle realtà, nei singoli settori, ad esempio possiamo asserire che la sottoscrizione dei contratti nazionali da parte di Usb abbia in qualche modo favorito la loro presenza dentro il comparto pubblico con il risultato, non certo esaltante, di appiattirsi sulle logiche meritocratiche, sulla idolatria della produttività accettando l’impianto complessivo dei contratti stessi. Quanti hanno sottoscritto i contratti nazionali ottenendo la rappresentatività, vale per Usb come per la galassia degli autonomi, vi risulta siano riusciti a mettere in discussione la performance, le disuguaglianze salariali e normative all’interno dei comparti pubblici?
E la firma di certi contratti possiamo considerarla ancora tecnica o invece la presa d’atto che senza sottoscrizione non hai agibilità sindacale e quindi vieni relegato in un angolo, dominando nei luoghi di lavoro pratiche subalterne alle parti datoriali a mero discapito del conflitto?

Poi ci sono settori nei quali anche la organizzazione del sindacato di base è avvenuta in tempi recenti con modalità diverse dal passato, pensiamo alla logistica ad esempio, modalità organizzative e pratiche sindacali dimostratesi efficaci e migliori rispetto a quelle tradizionali.
Mi lascia perplessa l’idea del sindacato che si affida per ogni questione agli sportelli sindacali e vertenziali, i tempi lunghi della giustizia borghese e le riforme avvenute nel tempo rendono difficile il ricorso alla via giudiziaria, se perdi devi anche sostenere le spese legali che sovente ricadono sul singolo. E la stessa idea di affidare ai legali l’andamento e la soluzione delle vertenze in certi casi potrà rappresentare una soluzione o una via di uscita, in tante altre occasioni una sorta di supplemento alle difficoltà sindacali stesse a coprire i nostri stessi limiti.
Stesso discorso potremmo fare per il sindacato concertativo, perché anni di zero conflittualità spingono lavoratori e lavoratrici a aderire a una sigla più forte che offra magari garanzie di copertura e di difesa accentuate rispetto ad altre realtà che, stando alle attuali regole, esprimono posizioni condivisibili ma senza un effettivo potere contrattuale.
Da una parte il monopolio della contrattazione, le regole sulla rappresentanza costruite ad arte per i sindacati complici, dall’altra la perdita del potere effettivo contrattuale del sindacato e una buona dose di fatalismo qualunquista e di quieto vivere (la famosa subalternità alla ideologia dominante) hanno senza dubbio lastricato la nostra strada di continue trappole. Non dimentichiamoci dei codici comportamentali che hanno alimentato un clima di paura e di rassegnazione abbattendo anche la conflittualità spicciola nei luoghi di lavoro.
Il sindacato concertativo senza Caf, patronati, enti bilaterali avrebbe lo stesso peso e potere ammaliante? Lasciamo perdere invece quanti stanno leninisticamente dentro la Cgil la cui minoranza, all’ultimo congresso, ha ottenuto un numero di delegati irrisorio, senza dubbio il più basso nella storia e alla fine contano, in termini numerici e sindacal-politici, assai meno di 20 o 30 anni fa.
Quanto avremmo asserito solo dieci anni fa, oggi sarebbe ancora sostenibile? Non sempre la forza è data dal numero degli iscritti ma piuttosto dalla loro combattività, dal radicamento sindacale e politico e ovviamente dal seguito reale nel contesto in cui si opera.
Anni fa pensavamo che entrando dentro le fabbriche più forti avremmo scardinato il monopolio della rappresentanza concertativa, oggi forse le cose sono un po’ cambiate e, ammesso si possa entrare dentro con rappresentanze organizzate, non è detto che anche i lavoratori combattivi vogliano rischiare rappresaglie associandosi ad una sigla sindacale non rappresentativa, assente ai tavoli nazionali, nei Cral aziendali, negli enti bilaterali, indisponibile ad offrire congiuntamente alla delega anche una assicurazione privata a basso costo. Qui entrano in gioco anche ruoli e funzioni delle Rsu, è evidente la scollatura tra queste rappresentanze e i sentimenti diffusi dentro i posti di lavoro.
Molti delegati vengono eletti per un rapporto fiduciario al di là del fatto che riescano o meno a configgere con la parte datoriale. Quanto poi alla domanda se il sindacalismo di base sia rimasto ancorato ai suoi principi e alle pratiche del volontariato è bene ricordare che ogni realtà presenta al suo interno un certo numero di funzionari e distaccati, anche le realtà della logistica hanno concluso nel passato accordi anche per avere agibilità sindacale, senza la quale non riesci a seguire le situazioni, soprattutto dove la frammentazione della forza lavoro è maggiore e ove le richieste di intervento diretto necessitano di tempo libero a disposizione, incompatibili con l’esercizio sindacale solo nel tempo libero.
Altro ragionamento va rivolto al sindacato fatto da pensionati, intere strutture vengono seguite da delegati\e nel frattempo usciti dalla produzione e andati in pensione, non mi chiedo se sia giusto o errato (bisogna ovviamente impedire che questi pensionati abbiano una sorta di rendita di posizione dentro gli organismi dirigenti delle sigle), ma fotografo la situazione reale con la quale fare i conti anche per l’assenza di un ricambio generazionale e di un modello gestionale che per sopravvivere ha dovuto operare dei compromessi
Chiudo sul rapporto tra politica e sindacato, negli anni pandemici alcune realtà come quelle contrarie al Green pass si sono sindacalizzate in realtà che avevano assunto posizioni contrarie al passaporto verde. Ci sono esempi significativi di pezzi del sindacalismo di base transitati da una sigla all’altra in base alle posizioni assunte sul green pass (e in certi casi a uscirne rafforzate sono state sigle autonome impresentabili), nel caso della mia organizzazione sindacale possiamo asserire che una posizione chiara e non ondivaga, l’opposizione della prima ora al Green pass, ci ha messo in rapporto con tanti lavoratori e lavoratrici non sindacalizzati. Eviterei al contempo generalizzazioni o analisi frettolose, la conflittualità tra capitale e lavoro non può limitarsi alla questione dei vaccini.
Lo dico con estrema laicità essendo stato dentro le realtà no green pass e avendone colto pregi, ma anche alcune culture involutive, che alla fine portano acqua ad altri mulini.
Non sempre iscritti e delegati ai sindacati di base esprimono conflittualità in ambito sociale e sindacale, può accadere, ma i casi sono alquanto limitati. È perfino difficile in una azienda sanitaria o in un ente locale far passare il concetto che la rappresentanza debba estendersi agli esternalizzati che svolgono un lavoro analogo al tuo, ma con contratti e datori differenti, o esprimere una posizione critica sulle assicurazioni private, quando poi la forza lavoro, per iscriversi, chiede una esplicita tutela e copertura assicurativa.
Certo che i sindacati di base devono assumersi delle responsabilità maggiori su tematiche come la guerra, la solidarietà verso i popoli resistenti o contro la devastazione sociale e ambientale, ma non generalizzerei la questione ricordando invece che, senza una radicalità nel luogo lavorativo o produttivo, difficilmente possiamo essere credibili e attivi anche su altre tematiche.
Poi ci sono realtà poco presenti nei luoghi di lavoro che propendono invece ad utilizzare la propria sigla in contesti extra lavorativi, compensando lo scarso peso e impegno sindacale in una sorta di sovraesposizione militante in altri contesti. Bisogna fotografare questa situazione per comprendere la realtà e cambiarla senza assumere posizioni manichee, operando per un salto di qualità degli iscritti e simpatizzanti del sindacalismo di base.

Un invito alla discussione tra i lavoratori e le lavoratrici conflittuali

È sufficiente circoscrivere la crisi del movimento operaio al tradimento dei vertici delle burocrazie sindacali? E qual è il ruolo delle rappresentanze dei lavoratori?

Dovremmo trovare tempo e modo di aprire un confronto tra i lavoratori e le lavoratrici conflittuali, farlo in fretta senza ripetere gli errori del passato quando, un trentennio or sono, si cullava l’illusione di indirizzare le organizzazioni sindacali ad una prassi conflittuale inserendosi nei loro gruppi dirigenti, senza essere per altro capaci di sviluppare movimenti di lotta, vertenze avanzate e un innalzamento sostanziale del conflitto tra capitale e lavoro. Molti degli assertori di quelle tesi entriste nei sindacati rappresentativi, a distanza di anni, li abbiamo ritrovati nelle segreterie confederali, nella veste di burocrati senza mai avere spostato di un centimetro le arrendevoli politiche intraprese nel corso del tempo.
La questione sindacale può essere affrontata in molti modi, ad esempio ripensando il rapporto tra organizzazione politica e movimento sindacale, il rischio che corriamo è sempre lo stesso: banalizzare il problema per trovare formule astratte ma rassicuranti, soluzioni frettolose che alla fine si traducono in mera subalternità o comoda attesa dentro organismi sindacali irriformabili.
Il primo e indispensabile passaggio dovrà partire dalla analisi del mondo del lavoro per comprenderne le trasformazioni e attrezzarci quando, in nome della riconversione energetica, arriveranno milioni di licenziamenti. Perché se leggiamo i vari PNRR europei, comprendiamo la portata devastante dei processi di digitalizzazione, in Germania ipotizzano nei prossimi anni oltre 5 milioni di licenziamenti compensati solo in parte dalle nuove professioni (circa 3,5 milioni di posti di lavoro).
Innegabile resta l’urgenza di comprendere i processi di ristrutturazione, per farlo non potremo limitarci a quell’approccio sociologico che, per quanto importante, porta alla esaltazione di singole figure romanzate scisse per altro dal contesto produttivo.
Non sentiamo il bisogno di narrazioni unidirezionali come è avvenuto con l’operaio massa, con il lavoratore autonomo di seconda generazione, non ci interessa e non sarebbe per altro di alcuna utilità per il rilancio della nostra iniziativa pratica.

 

La mancata unità sindacale è frutto di contraddizioni che non possono essere riassunte nella antitesi tradizionale tra base e vertice, questo valeva 30 e passa anni fa, quando molte Rappresentanze sindacali unitarie scesero in piazza contro i vertici sindacali che favorivano la cancellazione della scala mobile o tacevano davanti all’aumento dei ritmi, degli orari e al deterioramento delle condizioni nei posti di lavoro. Quelle Rsu erano, nel bene e nel male, anche il risultato delle lotte intraprese tra gli anni Sessanta e Settanta, quando i rapporti di forza erano decisamente migliori dei nostri giorni e quindi non potevano tacere su alcuni argomenti come la cancellazione di ogni automatismo tra aumento del costo della vita e incrementi salariali.
Pensare oggi a una contestazione di quella portata è inimmaginabile, veniamo da decenni di subalternità culturale, sindacale e politica della forza lavoro, con sindacati asserviti alle logiche di contenimento del debito che hanno sancito anche lo stravolgimento delle dinamiche contrattuali.
Molte Rsu, se non quasi tutte le Rsu, sono ormai espressione non dei lavoratori che le hanno elette ma delle sigle di appartenenza alle quali rispondono in virtù della asfissiante presenza dei distaccati sindacali di categoria. Di conseguenza non troveremo posizioni di aperto sostegno ad una nuova scala mobile, perché agganciare i salari al reale costo della vita è ormai un argomento tabù, bandito per anni dalle sigle rappresentative e non sufficientemente valorizzato anche dal sindacalismo di base, che oggi sconta regole inique in materia di rappresentanza, la limitazione del diritto di sciopero e crescenti difficoltà nella sua stessa agibilità sindacale.
Nel corso dei mesi scorsi abbiamo toccato con mano come i meccanismi propri della contrattazione e dei rinnovi contrattuali (codice Ipca, triennalizzazione dei contratti, deroghe ai contratti nazionali, potenziamento della contrattazione di secondo livello a vantaggio del welfare aziendale, che poi stravolge quello universale) siano divenuti centrali, serve quindi rilanciare una ragionata proposta di revisione di tutti quei meccanismi che ci hanno fatto perdere potere di acquisto, ma per farlo occorre avere la forza e la credibilità che invece mancano al movimento comunista.
Siamo un paese con elevati numeri di infortuni e di morti sul lavoro, eppure mai è stato convocato uno sciopero generale contro questa disumanità, i Rappresentanti dei lavoratori alla sicurezza restano subalterni alla filiera aziendale e in subordine alle figure datoriali.
Se i delegati Rsu sono espressione delle loro sigle, gran parte delle stesse Rsu da oltre 20 anni restano emanazione delle organizzazioni rappresentative e, salvo rare eccezioni, non rappresentano, come nel passato, un elemento di contraddizione rispetto all’operato sindacale. E forse ci siamo anche illusi che le Rsu potessero svolgere quel ruolo conflittuale determinato dalle commissioni interne, dai comitati di lotta e di base tra gli anni Sessanta e Settanta, non abbiamo capito che queste Rappresentanze sono nate invece nell’ottica di controllare la classe lavoratrice e non di renderla protagonista.

Molte Rsu, e i loro delegati, hanno introiettato l’idea che si debba contrattare solo quanto deciso dai Ccnl, che in pochi anni hanno ridotto ai minimi termini il potere di contrattazione mortificando quello di acquisto. Capita poi sovente che talune Rsu siano arretrate perfino rispetto alle sigle sindacali (moderate) provinciali finendo con il dedicarsi solo ad amene e inutili discussioni su questioni assai anguste e riconducibili non a vertenze ma a istanze individuali.

In questo contesto sarebbe opportuno invece domandarci quale ruolo abbiano le Rsu, se siano riformabili in una ottica di rilancio della conflittualità nei luoghi di lavoro o se invece sia necessario pensare a nuove forme di rappresentanza all’insegna della lotta di classe confutando pezzo dopo pezzo le regole che hanno allontanato sensibilmente la forza lavoro dal sindacato. Siamo davanti al deterioramento delle Rsu, risultato sia della mancata selezione dei gruppi dirigenti sindacali, sia del fatto che le stesse, dentro i meccanismi attuali, hanno spazi di manovra alquanto ristretti e ben poco potere contrattuale, in virtu’ degli attuali contratti nazionali e di quel devastante sistema delle deroghe che rinvia alla contrattazione di secondo livello.

 

Una discussione si rende necessaria sui processi di trasformazione del mondo lavorativo, sul modello di contrattazione , sul ruolo dei sindacati, sulla riduzione dell’orario di lavoro, sulla modalità agile ma anche sulle funzioni e sui limiti delle attuali Rsu, è indispensabile capire insomma come si sia trasformata la produzione e i settori pubblici e privati, ci sembrano queste premesse indispensabili per rilanciare una proposta all’insegna della unità della forza lavoro e del conflitto dentro cui i comunisti potrebbero, ma non è scontato, giocare un ruolo determinante.

 

 

 

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