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Editoriale (2002)

Editoriale (Collegamenti Wobbly n. 1 [terza serie], gennaio-giugno 2002)

Presentazione

In primo luogo ci compete enunciare le ragioni di questo, apparente, cambio di rotta della rivista reso tangibile già dalla rinnovata forma grafica e da alcuni dettagli non marginali quali l’apertura di una nuova serie, l’allargamento della redazione e delle collaborazioni, il nuovo sottotitolo e la nuova periodicità. Apparente cambio di rotta, in realtà aggiustamento, reso indispensabile dal cambiamento del contesto in cui ci troviamo ad operare e dalle esigenze che sono maturate nella discussione redazionale.

Il passaggio dallo dello storico sottotitolo “per l’organizzazione diretta di classe” a quello “per una teoria critica libertaria” non esprime affatto l’abbandono della prospettiva dell’autonomia e dell’autorganizzazione della working class. Al contrario l’attenzione alle concrete manifestazioni della contraddizione di classe, dei movimenti, delle esperienza di lotta e di organizzazione resta centrale.

Quest’attenzione, però, si colloca si misura con modificazioni profonde del quadro geopolitico internazionale, del rapporto fra sfera del potere politico e sfera della produzione, della lotta sociale e delle identità che la producono e che produce.

Su quest’ordine di problemi riteniamo necessaria una ricerca aperta, svincolata da urgenze organizzative, disposta ad indagare terreni nuovi ed a riprenderne, in forme nuove, di già praticati.

Nessuna rivoluzione dunque nell’assetto della rivista – almeno rispetto a partire dal n.4-5 dell’inverno 97-98, ma una doverosa correzione di rotta, compatibile con quella che e’ stata la vicenda terrena di Collegamenti. Storia che ci pare importante riassumere nel piccolo excursus che segue.

 

Un po’ di preistoria contemporanea

Collegamenti nasce, negli anni ’70, sulla base dell’ipotesi di svolgere un lavoro di ricerca critica sulle forme di espressione delle lotte del proletariato, valorizzando le forme di autorganizzazione sociale che si andavano sviluppando. La rottura del controllo socialdemocratico e staliniano sul movimento dei lavoratori appariva praticabile nella prassi immediata e di rilevanza tale da dare spazio ad una cultura politica di segno libertario fuori da ogni lineare continuità con la stessa tradizione libertaria. Il ciclo di lotte di quegli anni sembrava autorizzare uno schema semplice ma efficace: il vecchio movimento operaio poteva essere interpretato come la forma del controllo borghese sulla classe (in particolare della borghesia di stato e della corrispondente piccola borghesia), con un approccio che evidenziava un tratto saliente dell’integrazione delle classi subalterne nell’ordine sociale dominante ma tendeva a sottovalutarne la natura profonda.

Come giustamente è stato detto: “e, soprattutto, nessun pentimento”. Un approccio unilateralmente classista era il portato della rilevanza e dell’intensità del ciclo di lotte che molti di noi vivevano e ne vanno rivendicate le ragioni profonde. A un livello nuovo e più alto del dominio e delle contraddizioni che produce e con il disincanto, che è ben altro rispetto al cinismo, che ha prodotto la fine del precedente ciclo di lotte serve la disponibilità ad indagare la questione sociale con strumenti più rigorosi e con una disponibilità maggiore alla sperimentazione teorica e pratica.

Mentre dunque un particolare tipo di operaismo (radicato nel sindacalismo d’azione diretta: esplicito il riferimento all’IWW) costituiva il fondamento e il quadro analitico di riferimento di Collegamenti, possiamo individuare almeno tre radici di una sintesi teorica originale e parzialmente riuscita: la tradizione comunista-libertaria di classe; la sinistra comunista tedesco-olandese (Mattick, Korsch, Pannekoek) e in generale, la tematica consiliare depurata da ogni impianto determinista; la scuola della composizione di classe nella sua connotazione antiburocratica. La rivista e’ stata un laboratorio che ha permesso una collaborazione feconda tra compagni di formazione anarchica e marxista critica, sul terreno dell’intervento militante, della ricerca e dell’inchiesta.

Negli anni ’80 la fine di uno specifico ciclo di lotte determinava la scelta di porre l’attenzione sulle modificazioni della composizione di classe, sul precariato e sulle lotte del settore pubblico senza che il modello di riferimento teorico venisse, nella sostanza, rimesso in discussione.

Negli anni ’90 mentre la rivista continuava a legare un gruppo di compagni in relazione da anni, nella speranza di un superamento dei limiti del conflitto sociale che si manifestavano, una serie di trasformazioni “epocali” – effetti del procedere della crisi capitalistica – mutavano fortemente lo scenario: il crollo del blocco sovietico; l’estensione a livello planetario del modello capitalistico occidentale; il cambio del paradigma produttivo; il radicale ridimensionarsi del ruolo, del peso e della presenza del vecchio movimento operaio occidentale.

Proprio quest’ultima mutazione – congiunta alla latitanza di una stagione di lotte generalizzate, esprimente nuovi antagonismi di classe – spiazzava chiunque non fosse disposto o a riconoscere i processi storici come un noioso accidente quando divergenti dalla propria lettura degli accadimenti o a fare di ogni stormire di foglia il segnale di trasformazioni epocali. In questo contesto la rivista continuava a documentare quanto i movimenti esprimevano in un confronto sulle prospettive e sulle possibilità che sembravano aprirsi, nel tentativo di cogliere nelle lotte potenzialità antisistemiche. Tuttavia questa ricerca ha cominciato a mostrare la corda nel momento in cui i singoli avvenimenti e le singole lotte sembravano celare sempre di più le forme tradizionali della contraddizione capitale-lavoro e il dominio del capitale appariva sempre più come seconda natura, dunque invisibile e inevitabile.

Se, come crediamo, siamo di fronte ad una rivoluzione interna alle forme della produzione, del dominio, della comunicazione e delle relazioni sociali, se un salto di paradigma delle relazioni sociali capitalistiche è evidente, l’iniziativa politica e la ricerca teorica devono individuarne caratteri e contraddizioni se vogliono essere produttive di conoscenze, relazioni sociali, iniziative.

Era, quindi, necessaria una rivisitazione di alcuni presupposti fondanti la storia di Collegamenti che aprissero la rivista ad una elaborazione critico-teorica di più ampio raggio, cosa che abbiamo iniziato parzialmente a fare col numero citato del 97/98.

Oggi portiamo a fondo quella “correzione di rotta” riconoscendo la necessità di una rivista di teoria politica di segno esplicitamente libertario, dove con libertario intendiamo un approccio alla critica del potere nelle sue capacità di riprodursi e di adattarsi plasticamente alle contraddizioni che lo attraversano. Dunque indagine critica, non solo dell’ecomia politica, ma della macchina statale, del quadro geo-politico, delle innovazioni scientifiche e tecnologiche, dei linguaggi e delle culture dominanti, subalterni, antisistemici (anche nelle loro espressioni politicamente non “canoniche”, come il cinema o la letteratura fantascientifica), delle forme della lotta di classe, delle prospettive rivoluzionarie che oggi vi sono.

Su questa dimensione progettuale selezioneremo gli argomenti da trattare, gli interlocutori, gli avversari. Ora però torniamo alle impellenti cose del mondo, che su questo nuovo numero di Collegamenti saranno baricentrate in due dossier: G8 e guerra.

 

Guerra interna, guerra esterna

Il binomio guerra interna – guerra esterna, nella sua semplicità, costituisce un valido modello intepretativo per quello che si sta muovendo, nel mondo e nella nostra realtà italiana della periferia dell’impero. I due termini si integrano e si completano nel rappresentare un quadro complesso e denso di potenzialità distruttive, così come i loro due designati – il conflitto interno e quello internazionale – si sostengono e si rafforzano a vicenda.

La guerra interna, la guerre sociale, procede ininterrotta con un’offensiva statale e capitalistica a cui la working class fatica a rispondere, anche semplicemente in chiave prettamente difensiva. L’attacco sul terreno economico e dei diritti – del quale assistiamo ormai ogni giorno a nuovi episodi, si tratti delle pensioni, della libertà di licenziare, del diritto di sciopero, delle privatizzazioni – fa il paio con quello che è stato scatenato sul piano del controllo sociale e della repressione. L’esempio più eclatante l’abbiamo avuto nelle giornate genovesi del G8 e in tutto quello che l’ha preceduto e seguito. La militarizzazione del territorio, la ghettizzazione di interi quartieri, il capillare controllo poliziesco con schedature di massa, sono stati semplicemente l’antefatto di una vera e propria guerra contro la popolazione di una grande città e contro un’intera generazione politica: cariche poliziesche, pestaggi, violenze agli arrestati e tutto il repertorio che l’apparato d’ordine di uno Stato può mettere in atto a scopo preventivo, intimidatorio e repressivo. Genova da questo punto di vista è stata un vero e proprio laboratorio, a partire da come si possono sospendere in ogni momento le cosiddette “garanzie istituzionali” senza provvedimenti legislativi specifici d’emergenza. La lezione che dovrebbero averne tratto i teorici dei “diritti a manifestare o alla disobbedienza” e’ lì bella pronta ad essere letta, basta averne voglia. Polizia, carabinieri e gli altri corpi impiegati hanno agito nella repressione con assoluta “imparzialità”: i disciplinati manifestanti di Rifondazione Comunista e gli ineffabili pacifisti con le mani alzate sono stati equanimemente randellati, allo stesso modo degli spezzoni più duri dei manifestanti.

Altre lezioni, volendo, sono disponibili. La prima è che la spettacolarizzazione dei conflitti non si traduce nella loro “virtualità”. I conflitti sono sempre molto materiali, la repressione pure e le teste rotte e le braccia spezzate fanno male, molto male e non saranno ridicole armature di cartone e di gommapiuma a difendere qualcuno. La seconda è che il diritto a manifestare è – come tutti gli altri diritti riconosciuti nelle democrazie – diritto solo sulla carta, che può essere rivendicato solo in presenza di rapporti di forza favorevoli. La terza è che la dimensione in parte “virtuale” e in parte “sostitutiva” del movimento anti-globalizzazione (rispetto ai movimenti ed alle lotte reali della working class) può superare il suo limite intrinseco se e solo se viene critica sul piano pratico e teorico da una ripresa di un movimento di classe capace di sviluppare il conflitto nella tessuto della produzione e della riproduzione sociale. Hic Rhodus, hic salta. Paradossalmente, infatti, nelle tre giornate genovesi gli unici ad aver assolto al ruolo che si erano prefissi sono stati i black-blocs.

“Smash capitalism”, hanno scritto sui muri della città nella giornate di luglio, con una rappresentazione sintetica del loro programma. Colpire il capitalismo, con l’accentuazione sulla fisicità dell’atto. Colpire il capitalismo nelle sue manifestazioni tangibili eppur simboliche: banche, sedi di multinazionali, auto di lusso, ecc.; simboli e manifestazioni dei poteri finanziari ed economici, del potere del mercato. Colpire materialmente e attaccare sul piano ideologico, magari con uno sberleffo: “Game over” e’ stato scritto vicino ad un bancomat distrutto, il gioco è finito, il dispensatore di denaro che viene dal nulla è ridotto alla dimensione intrinseca del videopoker.

Ma la simpatia sentimentale – e un po’ estetizzante – per queste forme di propaganda “mediante il fatto” non può nasconderne un limite evidente: l’espressione più incisiva del movimento no-global viene da giovani compagni che nelle loro realtà nazionali giudicano la working-class completamente istituzionalizzata e priva di ogni potenzialità rivoluzionaria. È evidente che quanto pensano i black-blocs della lotta di classe è del tutto irrilevante. Nella società dello spettacolo l’efficacia comunicativa di un qualsiasi atto non ha alcun rapporto lineare con la sua potenzialità sovversiva ed, anzi, il ghetto estetico è un serbatoio di innovazioni dal punto di vista dell’industria della comunicazione. D’altro canto, la rivolta estetica rimanda ad una tensione profonda, al bisogno di finirla con il dominio della merce e della mediazione politica. È una risposta alienata e concorrenziale all’alienazione dominante ma segnala il tentativo di spostare in avanti la contraddizione.

Appare quindi ridicola la condanna politica e morale dei piccoli artisti di strada che hanno contribuito ad animare le giornate genovesi soprattutto se viene da chi ha fatto della spettacolarizzazione del conflitto una ben retribuita professione.

Per quanto tocca a noi, si tratta di cogliere le forze storiche che si manifestano al di là dello spettacolo e di coglierle anche, ma non principalmente, attraverso lo svilupparsi dello spettacolo stesso.

 

*****

 

La guerra esterna invece sta divampando in forme, recuperate, di cui avevamo perso memoria: un richiamo suggestivo potrebbe essere quello alla “politica delle cannoniere” per il controllo della Cina agli inizi del secolo. è, tuttavia, guerra imperialista autentica, pronta a dispiegarsi in tutte le sue enormi capacità distruttive. è il ripristino di una “normalità” nello sviluppo capitalistico: la dimensione della guerra totale. L’11 settembre rappresenta in effetti, almeno in parte, un salto di qualità. è la sanatura di una relativa discontinuità nel processo di sviluppo capitalistico: per un decennio, dal crollo del blocco dell’est all’attacco alle Twin Towers, abbiamo vissuto in clima di relativa sospensione rispetto alla dimensione più distruttiva dell’imperialismo. Infatti se è vero che la dissoluzione del blocco dell’est ha consumato, in termini di risorse economiche e materiali, quanto un conflitto mondiale, è anche vero che le operazioni di polizia internazionale contro i vari “nemici” (Saddam, Milosevic) avevano una portata di area e non certamente mondiale. La crociata internazionale contro il terrorismo invece riassume bene il clima da mobilitazione totale tipico dei conflitti mondiali. Il clima da “union sacrée” che si è prodotto dopo l’11 settembre e il massacro di New York – sul piano internazionale e all’interno dei singoli paesi – rende molto difficile un’opposizione umanitaria e/o democratica e/o pacifista alla guerra (ovviamente comprendiamo in queste categorie anche un’opposizione “antagonista” come quella che le frange radicali dei no-global avrebbero dovuto esprimere, ma che curiosamente non si è manifestata non appena c’è qualcosa di veramente globale): la morte di migliaia di civili, il suo impatto emotivo confliggono apertamente con le categorie di diritto internazionale o di democrazia che ad esempio Rifondazione sbandierava ai tempi dell’intervento in Kosovo. Buon gioco ha, invece, chi si richiama ad una concezione elementare di giustizia tipo “occhio per occhio” che ha validi riscontri nella sottocultura popolare, nell’apparato ideologico del nazionalismo bellicista ed anche nelle tradizioni delle grandi religioni monoteiste. Questo apparato giustificativo – rozzo ma efficace in quanto rafforzato dalla “sgradevolezza” dei talebani e dell’integralismo islamico in genere, nonché dall’impresentabilità di un Bin Laden – da un lato, precipita nell’invisibilità il riassetto geopolitico dell’area, fortemente perseguito dagli USA e dai suoi alleati più stretti (o anche di quella mediorientale secondo i progetti israeliani), da un altro, rafforza nei singoli paesi quel clima di guerra interna di cui parlavamo e le armi con cui viene combattuta da Stati e borghesie. È appena il caso di ricordare che alcune legislazioni eccezionali contemplano, e contempleranno, le azioni di sciopero selvaggio come atti di terrorismo. Un’altra conseguenza – sul piano dell’ideologia di consenso di cui l’“union sacrée” necessita – è il riproporsi di un sentimento nazionalista, per noi desueto, ma denso di conseguenze. Dal recupero dell’orribile inno di Mameli che scalda il cuore solo ai tifosi della nazionale, ai discorsi presidenziali sul Risorgimento (che tutto fu tranne lotta di popolo), cresce una campagna becera e vagamente ridicola che – anche se non farà proselitismo di massa – contribuisce alla desertificazione culturale e delle coscienze.

Per concludere, quando parlavamo delle difficoltà del crescere di un opposizione di massa alla guerra era sottinteso che questi problemi ci sono anche per chi persegue un’opposizione di classe. Di questo dobbiamo farci carico in prima persona, facendoci carico del fatto che, in questa fase, parole d’ordine come “disfattismo rivoluzionario” o “internazionalismo proletario” vadano assunte con tutte le loro contraddizioni interne, ma anche con le nuove potenzialità alle quali alludono.