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Janover, La democrazia come science-fiction della politica

La democrazia come science-fiction della politica *

di Louis Janover

Non è così lontano il tempo in cui i più agguerriti tra i nostri filosofi vedevano l’Armata rossa accamparsi alle porte di Parigi; quando il sagace Claude Lefort non teneva molto in conto le “risorse energetiche d’Europa” agognate dall’URSS; quando Castoriadis e Morin mettevano in guardia l’Occidente contro l’homo sovieticus, tipo antropologico inedito divorato dalla sete di conquista e che non arretrava di fronte a niente per soddisfarla. Anche il sempliciotto che arriva dopo la battaglia non può mancare di porre una questione di puro buon senso: Perché i “totalitarismi” sono crollati come castelli di carte mentre la “democrazia” sembra diventata il nuovo e invalicabile orizzonte dei tempi? Perché il Tutto-stato non faceva peso sulla bilancia del mercante. Fedeli a loro stessi, gli intellettuali avevano preso i loro incubi per realtà, come ieri avevano preso alla lettera quello che loro bisbigliava all’orecchio Trotski sull’Ottobre, Stalin, Mao o Castro sul “socialismo realmente esistente”. Infatti, malgrado o a causa, del suo aspetto minaccioso, il Grande Fratello in armi non era tagliato per resistere a lungo alle pressioni tentacolari della democrazia flessibile, ben superiore al totalitarismo nell’arte e nel modo di farsi comprendere ed obbedire senza alzare la voce.

E, in effetti, i rapporti di produzione capitalisti hanno di inedito che con essi, nello stesso tempo, si perfeziona e si occulta l’unità del dispotismo che si esercita in tutto lo spessore della società. Potere economico e potere politico si fondono nel crogiolo dello sfruttamento, in modo tale che la società sembra obbedire solo a leggi naturali e subusce le esigenze dell’accumulazione allo stesso modo dei cambi di stagione; e che il dominio reale del capitale integra con facilità tutte le forme di coercizione. Da qui l’emergenza della nozione di governamento! Da qui la crisi politica, che è una crisi del politico, senza altro rimedio che la reinvenzione della «democrazia».

«Non è un partito parlamentare, ma una classe dirigente che si trova in possesso di tutti gli strumenti di dominio economico e sociale», sottolineava Rosa Luxemburg nella sua critica delle illusioni del riformismo di allora. Infatti «le istituzioni formalmente democratiche non sono, quanto a contenuto, che gli strumenti degli interessi della classe dominante» (1).

Ne l’Armée nouvelle, Jean Jaurès spiegava invece che al contrario «lo Stato non esprime una classe, esprime dei rapporti tra le classi, ovvero il rapporto tra le loro forze» (2). Ma che cosa esprimono i rapporti di classe nella società borghese, se non la forza della classe dominante in seno ai rapporti di produzione? Sono questi, in effetti, che determinano la posizione rispettiva della classe operaia e dei detentori dei mezzi di produzione, che si tratti della borghesia o di una burocrazia. Da qui, come può una semplice trasformazione giuridica o culturale, come un cambio di maggioranza, modificare il rapporto generale che racchiude tutto il sistema di deleghe nell’assetto della proprietà?

La tesi di Jaurès secondo la quale «Non si è mai dato uno Stato che fosse semplicemente uno Stato di classe, ovvero che si stato nelle mani della classe dominante uno strumento tuttofare e servo di tutti i suoi capricci» (3) enuncia un truismo privo di valore esplicativo. Questo perché non dice nulla sulla parte che spetta alle forze in campo. E se egli caratterizza lo Stato come «l’espressione di una democrazia borghese dove la potenza del proletariato è cresciuta» il problema è sapere fino a che punto questa può crescere senza infastidire la classe che domina la società non in ragione del posto che occupa nello Stato, ma che domina lo Stato in ragione del posto che occupa nei rapporti sociali.

Detenere il potere politico è detenere i mezzi per camuffare l’interesse particolare in interesse generale, di imporre un’espressione d’insieme dell’interesse sociale. Quando «ogni frazione del popolo può porsi come popolo» nessuna di queste dispone del «vero», notava già Hegel ne la Raison dans l’histoire. Ciò non era sfuggito a Rousseau in preda alle proprie inquietudini. «E’ necessario dunque – scriveva nel Contrat social – per aver espressa la volontà generale che non ci siano società parziali nello Stato e che ogni cittadino non si conformi che a questo. Perché se un’associazione parziale si forma a spese della più grande e prevale «su tutte le altre, non si ha più come risultato una somma di piccole differenze, ma una differenza unica; allora non c’è più una volontà generale e l’opinione che prevale non è che un’opinione particolare». Ma questa opinione si manifesta come espressione della volontà generale perché in mancanza di ciò la sopercheria non sarebbe accettata.

Infatti la somma dei voti, la Maggioranza, la «volontà di tutti», può esprimere una volontà estranea alla volontà generale, un interesse particolare contrario all’interesse generale. «Si deve capire che quello che generalizza la volontà non è il numero dei voti ma l’interesse comune che li unisce». Ogni carattere di equità e di giustizia sparisce se non esiste «un interesse comune che unifichi e identifichi le regole del gioco con quelle della parte». Dunque tutto l’edificio della rappresentazione democratica si fonda sulla falsa sembianza che postula l’eguaglianza tra le voci e l’armonia tra i cittadini per dedurne in anticipo la legittimità del potere uscito dalle urne. L’analisi di classe non tende ad altro che a mettere in luce questo interesse particolare che fa dello Stato sua proprietà privata!

Le istituzioni parlamentari assicurano la transubstanziazione di questa volontà particolare in volontà generale, in modo che ciascuno possa credere che la democrazia è lo strumento di fedele registrazione delle aspirazioni del popolo al cambiamento per trasmettere allo Stato le sue più piccole variazioni. Tenuto conto dei modelli di selezione e di rappresentazione in vigore, della struttura dei partiti politici, l’importanza numerica del «popolo» non può controbilanciare la potenza economica e sociale della classe che dispone di tutti i mezzi per pesare sui meccanismi di delega del potere e di presa delle decisioni. Da qui la necessità di fare in modo che l’atto di spossessamento sembri essere stato liberamente consentito. E qua il vero perno della democrazia. Infatti non è malgrado il suffragio universale, ma grazie a questo che lo Stato può erigersi a strumento della classe economicamente dominante senza avere l’aria di prendere partito. Si è immaginato, ha detto Pierre Leroux, «di nominare dei capi, invece di lasciarseli imporre». Ma se si «considera attentamente il cambiamento che l’elezione fa subire alla gerarchia, si vede che la gerarchia non cambia di natura e di sostanza fino a che non cambi la sorgente del potere […]. Dunque, il dispotismo, vinto sul piano del diritto, non è per niente colpito sul piano dei fatti, poiché appena esce da una porta, se così mi posso esprimere, rientra da un’altra per la nuova origine data al potere» (5). Un altro modo di dire che il Fatto viene prima del Diritto.

Un filo di ragnatela invisibile tiene al laccio la democrazia, senza scappatoie possibili. Questo legame sociale è forgiato in modo da allungarsi o raccorciarsi senza spezzarsi, infatti quali che siano le circostanze, è «la grandezza dell’accumulazione che costituisce la variabile indipendente e quella dei salari la variabile dipendente e non viceversa» (6). Invertire il rapporto significherebbe semplicemente rovesciare il sistema di produzione esistente.

Una semplice trasformazione delle condizioni politiche, giuridiche e culturali sarà sempre impotente a modificare il rapporto generale che definisce la proporzione tra le due parti dell’economia mista secondo la quale il «pubblico» resta un servizio del «privato». Il sacrosanto Progresso fa parte integrante di questa dinamica contraddittoria. E’ allo Stato, compendio e garante dei rapporti di forza, che compete di dare forza di legge ai nuovi modelli di organizzazione del lavoro e di mistificare in legge di natura la legge dell’accumulazione capitalista.

Non solamente il suffragio universale non è mai riuscito a spostare di un pollice questo paracarro, ma ciascuna delle sue conquiste «di cittadinanza» lo rendono ancora più pesante. Jean-Jacques Rousseau l’aveva presentito nel Contrat social. Dopo aver stabilito che per il Patto fondamentale gli uomini, a dispetto delle ineguaglianze naturali di forza fisica o di intelletto, «diventano tutti uguali per convenzione e per diritto», aggiungeva in nota, come per aprire le porte ad una concezione critica della struttura sociale: «Sotto i cattivi governi questa uguaglianza non è che apparente e illusoria; essa non serve che a mantenere il povero nella sua miseria e il ricco nella sua usurpazione. Nei fatti le leggi sono sempre utili a coloro che possiedono e nocive a quelli che non hanno nulla» (7).

Ma dove si annida dunque l’origine dei «cattivi governi» se il Patto è stato considerato in grado di radicare l’eguaglianza tra i cittadini? Bisogna essere in grado di ricercare dall’altro lato dello specchio del diritto e delle leggi, nell’opposizione tra ricchi e poveri e l’usurpazione legale che ne risulta.

E’ dopo il tabula rasa operato dalla Rivoluzione francese che è stato possibile a Rousseau di cogliere il segreto del Patto sociale e dei suoi miraggi: l’inestricabile compenetrazione dell’economia e della politica. Ed è con la espensione del dominio del capitale sulla società che il principio di specificazione marxiano, caro a Korsch, ha permesso di vedere meglio a quale punto si allacciano i fili dell’illusione democratica: la «connessione materialista che, nella società borghese, esiste tra la “forma politica specifica” della comunità e “il rapporto di sovranità e di dipendenza deriva direttamente dalla produzione e reagisce a sua volta in maniera determinante su questa”» (8).

Il rapporto di lavoro che postula l’eguaglianza astratta delle parti contraenti, nasconde non solamente la loro ineguaglianza reale sul piano economico ma anche il dominio che viene esercitato sulloperaio (9); esso rigetta fuori dalla sfera dello sfruttamento i rapporti politici, giuridici e culturali, fuori dal rapporto generale che fonda il potere della classe sui quaranta talenti. Dunque «la nozione di persona legale è la maschera economica del rapporto di proprietà» e dissimula il fatto che il dominio e la subordinazione sono a lui indissociabili. E’ questo e non l’espressione giuridica data dal diritto privato che definisce il contenuto umano dei diritti dell’uomo. Da qui il paradosso che Rousseau aveva esposto nella chiarezza della prima scoperta: «Io faccio con te una convenzione, tutta a tuo carico e a mio profitto, che io osserverò quando mi parrà e tu osserverai quando mi parrà» (10).

Si comprende perché la nuova concezione della storia vede in tutte le analisi in termini di rapporti di produzione una deriva verso un «economicismo» senza ritorno: mostrare da dove viene il primo impulso del meccanismo ritorna a rivelare che il patto sociale è nei fatti l’atto di rescissione permanente del diritto di una delle parti.

Ciascuno conosce la celebre immagine secondo la quale non ci si siede sulle baionette. Nondimeno non c’è da dubitare che sono queste la sede del potere. La suprema astuzia consiste nel fondere in ornamenti questi ingombranti strumenti, e perché no, a fare di questi attributi della tirannia i garanti delle libertà democratiche.

 

Servitù, modo d’impiego

Un editorialista di talento alla ricerca di un nuovo paradigma che facesse dimenticare agli intellettuali gli errori dell’hegelo-marxismo, si felicitava con Francis Fukuyama, l’autore di successo de La fine della storia, di aver rimesso l’economia al suo posto, quello secondario, e averla rimpiazzata «al primo posto con le cause ideologiche, psicologiche e culturali» (11).

François Furet, che per parte sua si è largamente ispirato alle tesi di Claude Lefort sulla Politica e la Democrazia, scopre a sua volta che non esistono «antecedenti del sociale sullo Stato», di «precedenza del sociale sul politico»; e che non si comprende nulla della storia se si rigetta «l’idea dell’indipendenza dello Stato in rapporto alla società», se si rifiuta di intendere la figura dello Stato nella sua «relativa indipendenza in rapporto alla società» (12).

Autonomia, indipendenza relativa o assoluta. Lasciate senza altre precisazioni, queste nozioni, già approssimative in sé, restano dei cruciverba. Perché, qualsiasi cosa se ne pensi, solo il rapporto con la società e le condizioni materiali permette di misurare il grado d’autonomia e di indipendenza e quindi il grado di non-indipendenza e di non-auto nomia, non fosse altro che per una ragione di semplice buon senso: il concetto di sfruttamento ha evidentemente un contenuto che va al di là dell’economico, che coesiste con la coercizione esercitata dall’alto in basso nella piramide sociale. Non si domina per dominare, ma parce que e pour que, a meno di staccare il dominio dalle sue fondamenta empiriche e ad edificare un mondo senza sopra e senza sotto, reame dell’ipostasi dove l'”ideologico-politico” diventato la chiave di volta di tutta la costruzione intellettuale fluttua in uno stato di antigravità sociale.

Un passo ancora e siamo nel reame della quintessenza, là dove il filosofo Marcel Gauchet si è incagliato, seguendo Claude Lefort, in vista «del bordo estremo del mondo temporale, in vista dell’al di qua del di già. Prova di un limite, nel quale ancora è necessario rinunciare ad ogni cattura di qualcosa e di un a priori in particolare».

Che cosa resta da trovare o da provare a colui che sarà giunto al cuore de «l’originario se stesso che chiama il gesto fondante, enclenché nel doppio movimento di cancellazione e di presentazione dove si dà l’origine» (13).

In questa storia incantata, dove la volontà pura del soggetto libero nel diritto regna interamente, e senza ancoraggio, non esiste, in effetti, una «divisione di fatto», ma una «divisione che è anche quella del particolare e dell’universale, un desiderio e la legge, del desiderio stesso, infine, nel desiderio di avere e il desiderio di essere, desiderio di dominare e desiderio di non essere dominati» (14).

Da allora in poi, tutto si riduce a un va-e-vieni tautologico tra desideri contrari e desideri contrariati. Lo Stato sarà meno garante dell’obbedienza degli sfruttati costretti dalla necessità di interiorizzare i valori dei loro padroni che l’espressione di un desiderio nativo che li disporrà a invocare il giogo protettore. E se questi, prima o poi, arriveranno a scuotersi, la loro rivolta non avrà alcun effetto liberatore di lunga portata, perché questa violenza sbrigliata li ricondurrà obbligatoriamente alla sua origine, una sete di essere liberati dall’orrore della libertà. Ogni Rivoluzione allora sarà copia della peggior servitù.

Solgenitsin parla, a proposito degli effetti perversi dell’Ottobre, «del piacere di essere sottomessi», sebbene il Gulag pesi doppiamente sulle spalle delle vittime. Da qui la morale che egli trae: «Noi abbiamo puramente e semplicemente meritato tutto quello che è seguito» (15).

«Liberamente schiavi»! La formula di Joseph de Maistre riprende e rafforza l’idea di «servitù volontaria» di La Boétie, che non gli dava uno status quasi ontologico. Essa ormai si inscrive in filigrana in tutti i discorsi sul desiderio di dominio radicato nell’alienazione inerente alla natura umana. Una catena elastica e sottile ci trattiene senza asservirci per assegnare ad ognuno il suo posto nell’ordine universale. Ma l’obbedienza che propone Joseph de Maistre ignora quello che è la libertà, perché essa è ignoranza dei disegni della Provvidenza e non rinuncia liberamente accettata: essa richiude l’obbedienza su sé stessa è dà una sembianza logica a un non-senso. Nei due casi le parole si escludono mutuamente. Solo il dominio è volontario e il suo principio non saprebbe estendersi a quelli che la subiscono.

Il contorno semantico nasconde infatti il senso delle mediazioni sociali e politiche della servitù, delle quali Spinoza, prima di Rousseau, ha smontato il meccanismo per farne risaltare l’assurdità. Da una parte «nessuno saprebbe di sua propria volontà, se non costretto, trasferire a qualcuno la totalità dei propri diritti naturali» ma, d’altra parte «la Potenza Sovrana può ottenere, in vari modi, che la grande maggioranza degli uomini conformino le loro credenze, i loro amori e i loro odii ai desideri che essa stessa nutre» (16).

In modo più sofisticato potremmo dire che in effetti perché la Potenza Sovrana ha capito che il miglior modo di stabilire il suo potere è di infondere le prerogative della Sovranità nello spirito delle leggi e di sembrare, così, anticipare i desideri della maggioranza.

L’interiorizzazione delle norme della servitù deve necessariamente dirsi volontaria, altrimenti non riuscirebbe a nascondere il fatto di non esserlo. Blaise Pascal non si era lasciato ingannare: «E’ pericoloso dire al popolo che le leggi non sono giuste perché non vi obbedirà se non le crede tali. Per questo bisogna dirgli, nello stesso tempo, che deve obbedire perché si tratta di leggi, come deve obbedire ai superiori non perché sono giusti, ma perché sono superiori. Con questo mezzo ecco ogni sedizione prevenuta, se si può far intendere che questa è propriamente la definizione di giustizia» (17).

Non siamo lontani dal “Tirannipocrita” dei Livellatori che, ben prima di Babeuf, fustigavano le nozze infernali tra la Tirannia e l’Ipocrisia, fertili in scaltrezze linguistiche. Ed è alla stessa morale sovversiva dei Divagatori «strappanti la maschera della virtù» (Erbery) che si ispira Shelley circa un secolo e mezzo più tardi. Con The Mask of Anarchy, «visione poetica», l’occhio è, a una volta, dentro e fuori un’Apocalisse profana, vera “illuminazione” profetica destinata a mettere in luce i nuovi travestimenti della Bestia e a rivelarci il senso della rivolta nella storia (18).

La “Tirannipocrisia” parla oggi come “democrazia”, poiché è con la voce delle urne che il popolo è invitato a far intendere ai suoi padroni che si compiace della sua condizione. In questo senso ogni “consultazione elettorale” rinnova e celebra simbolicamente l’atto di sollievo primitivo, in modo che le norme del dominio e della servitù sembrino impresse nel “tessuto sociale” in funzione di “leggi naturali” e che cancellarle sarebbe, possiamo dire, intaccare e ferire la materia stessa della storia.

 

Senza di sopra e di sotto

«Questa identificazione degli oppressi con la classe che li governa e li sfrutta non è che una parte di un insieme più grande. Gli oppressi possono, d’altra parte, essere legati affettivamente a quelli che li opprimono, e malgrado la loro ostilità contro questi, vedere nei loro padroni i propri ideali. Se questa relazione, in fondo soddisfacente, non esistesse, sarebbe incomprensibile che la civilizzazione abbia potuto mantenersi così a lungo malgrado l’ostilità giustificata delle folle».

A leggere queste righe de l’Avenir d’une illusion di Freud si potrebbe credere il destino dell’umanità suggellato per i secoli dei secoli. Ma questo attaccamento volontario non dissimula una costrizione ancora più potente di quello che sembra agli individui un fatto di natura contro il quale si solleverebbero invano? La “civilizzazione” dà all’individuo queste idee, perché le trova già esistenti. Esse gli sono presentate belle e fatte e non sarà lo stesso che scoprirle da solo» (19). Così si ritorna in argomento. La servitù volontaria è in realtà la cosa più involontaria al mondo, perché essa si impone all’individuo al fuori di ogni scelta come una prescrizione inscritta nella sua carne avanti la nascita. «La civilizzazione» diventa qui il deus ex machina della storia specie se essa si colora ancora della chiarezza dell’Età dei Lumi.

Dire che gli uomini lavorano di loro propria iniziativa a forgiare delle catene, porta, paradossalmente, a presupporre due stati contraddittori: che l’idea di un legame d’indipendenza è anteriore alla dipendenza stessa, quindi un’idea preformata; e anche che esisterebbe un luogo originale di libertà pura, una società dove non ci sarebbero catene di sorta. Questo è non vedere che il primo anello non fu semplice catena, ma un rapporto, un trait d’union che diventò in seguito il nodo della necessità così ben chiarita da Rousseau: «Voi avete bisogno di me, perché io sono ricco e voi siete poveri. Facciamo dunque un accordo tra noi. Io permetterò che voi abbiate l’onore di servirmi, a condizione che mi doniate il poco che vi resta per la pena che mi prendo a comandarvi» (20).

La servitù volontaria è l’altro nome del dominio volontario, tanto è vero che non si potrebbe pensare l’uno senza l’altra, poiché le stesse condizioni materiali rendono pobbile l’una e l’altro. Perché prima e fuori di ogni sistema di rappresentazione politica, è già necessario che un potere detti il senso di questa evoluzione; un potere agente prima della legge e dell’ordine; un potere che conferisce al potere legislativo la forza di istituirsi e al suffragio universale la forma politica adeguata alla realtà della società costituita; una forza nella quale si trovano l’origine e la causa dei conflitti e delle antinomie che rendono necessaria l’esistenza dell’ordine rappresentativo e dei suoi apparati – polizia, tribunali, amministrazione – destinati a far rispettare la supposta volontà generale; la quale per il solo fatto che si manifesta in questa maniera, rivela la sua natura antinomica come espressione astratta, illusoria, di un interesse generale il cui carattere fittizio non cessa di esplodere nel funzionamento delle istituzioni che pretendono di rispettare una media tra egoismi inconciliabili.

Claude Lefort lo afferma e lo ripete: «La democrazia esige che il luogo del potere resti vuoto», che il sovrano «non appaia al di sopra delle leggi», che «la fonte della legge [diventi] non localizzabile». Diciamo piuttosto: la democrazia esige che il nome del potere resti impronunciabile, che «leggi e diritto si succedano come un’eterna malattia» (Goethe) – ma che la loro origine si cancelli dalle memorie.

La disintricazione del «teologico e del politico», ci dice ancora Lefort, rappresenta un «evento considerevole poiché ci induce ad ammettere la legittimità delle credenze, delle opinioni e degli interessi multipli, persino opposti, a condizione che il conflitto non metta in pericolo la sicurezza pubblica». Esiste dunque una forza supposta non-localizzabile e messa al riparo degli sguardi, che impone i suoi limiti alle credenze, alle opinioni e ai conflitti e permette alla sicurezza pubblica di esercitarsi come un processo naturale: è il diritto di proprietà. Lui solo, in effetti, «dà una qualche sorta di visibilità alla discordia nel quadro di un mondo ordinario».

Ma la «discordia», sempre pregiudizievole per la gente «ordinaria», lontano dall’essere la prova che il potere si mantiene equidistante dai due poli antagonisti, rivela che è lui stesso concentrato ad uno dei poli. Il disequilibrio permanente contraddice senza posa il principio in nome del quale la democrazia reclama l’adesione di tutti.

L’eccezione nega in permanenza la regola, ma la regola resta intoccabile perché senza la sua esistenza sarebbe impossibile legittimare le eccezioni. Da questo circolo vizioso non si esce che per artifici del linguaggio. E’ proprio perché lo Stato non è che l’espressione della volontà di una classe che impone il suo interesse come interesse generale, che le categorie del diritto entrano in collisione permanente con le loro proprie premesse. Contraddizione inevitabile, e anche necessaria, confessione di un dualismo sornione che si risolve periodicamente in antagonismo aperto e violento tra questo interesse particolare leso dall’altro, che ha saputo elevarsi nello Stato di diritto al rango di interesse generale e di legge.

A causa dell’opposizione irriducibile tra l’interesse particolare dominante e l’interesse comune dileggiato, «questo assume una configurazione autonoma, staccata dagli interessi reali, individuali e collettivi, nello stesso momento in cui si presenta come comunità illusoria». Ma esso si innalza sempre «sulla base delle classi sociali già prodotto della divisione del lavoro», classi «di cui una domina su tutte le altre». Ne segue «che tutte le lotte in seno allo Stato, la lotta tra la democrazia, l’aristocrazia e la monarchia, la lotta per il suffragio, ecc., non sono che le forme illusorie – il generale essendo sempre la forma illusoria del comunitario – nelle quali le lotte tra le diverse classi sono condotte» (21). «Il posto del privilegio è stato qui occupato dal diritto» che, per forza di cose, si erige in garanzia dei nuovi privilegi.

L’eguaglianza generale tra i cittadini è, in ogni momento, smentita dell’ineguaglianza del loro status profano. L’interesse più potente della società si impone come interesse generale e lo Stato ne fa suo affare personale. Diventa allora lui stesso l’interesse generale di un interesse particolare che confonde con il suo movente interessato di burocrazia di Stato – professionisti della politica e della rappresentazione ideologica. Per permettere che la somma degli egoismi particolari più potenti non leda l’egoismo principale e che il diritto della maggioranza non pesi più che quello della minoranza, il suffragio universale dovrebbe diventare «illimitato, attivo tanto quanto passivo». Ma questo salto qualitativo significherebbe allo stesso tempo la sua abolizione. «Esigere la riforma del suffragio, è dunque esigere, all’interno dello Stato politico astratto, la dissoluzione di questo, ma anche quella della società civile» (22).

Dunque, il suffragio universale non può realizzarsi senza negarsi, perché la democrazia diretta rende inutile il sistema di mediazioni nato dal divorzio tra la società civile e lo Stato politico, tra il cittadino e l’individuo privato.

Che la verità della democrazia sia, secondo Lefort, la non democrazia della sua pratica; che il «principio dell’affermazione del diritto» lasci filtrare dappertutto l’arbitrio – questo è il segreto del pluralismo della rappresentazione politica, che serve a dissimulare l’unità indissolubile dello sfruttamento e del dominio, nuova figura dell'”Uno” nel dispotismo moderno, dove il feticismo dell’economia marchia col suo segno tutti i rapporti sociali.

 

Una democrazia senza democratici

Claude Lefort ci invita, è vero, a rinunciare al «fantasma della Rivoluzione», pena il soccombere alla tentazione totalitaria; a «consentire a pensare e agire negli orizzonti di un mondo» che preserva «un’indeterminazione del sociale e dello storico» e permette di «sfruttare le risorse di libertà e creatività alle quali attinge un’esperienza che accoglie gli effetti della divisione» (23). Per sfortuna questa indeterminatezza del sociale e dello storico è ormai la cosa più determinata che ci sia, poiché si radica nell’ineguaglianza sociale, essa stessa ancorata alla divisione del lavoro.

Parliamo profano: non è lo Stato totale nelle mani dell’Egocrate che tende invincibilmente a «pietrificare i rapporti sociali». Il feticismo della merce si è impadronito di tutto lo spazio della produzione, di tutte le facoltà e gli attributi umani che sottomette così all’attrazione di uno dei poli della società. E se il movimento operaio «può essere affondato a sua volta, almeno per una parte, nella turba delle burocrazie nate per la necessità della sua organizzazione» (24), queste necessità vengono, a loro volta, dall’obbligo di organizzare la classe operaia all’interno del rapporto costitutivo della democrazia, il rapporto di proprietà, lui stesso organizzato sulla base della compravendita della forza lavoro, o della sua messa in disparte.

Di fatto l’invenzione democratica interdisce al movimento sociale di inventare nuove forme di lotta e di organizzazione. Essa costringe l’immaginazione sociale sul già fatto e sul già visto, e si erge come nemico mortale dell’utopia, perché l’inedito è, per definizione, contaminata da un certo tasso d’imprevedibilità, dunque pieno di “pericoli” rivoluzionari, come la vita. Poiché la democrazia realmente esistente si appoggia sulla divisione sociale e sulla specializzazione, essa vedrà un pericolo mortale in tutto il movimento che potrebbe colpirla riducendo le disuguagliaze. La conclusione s’impone in tutta evidenza: è il rinunciare a superare queste divisioni che apre la strada ad un regime totalitario; ed è perché in democrazia, i democratici radicali sono trattati da nemici, difensori del totalitarismo, persino del terrorismo – che non meritano l’assoluzione che post-mortem.

Adolphe Thiers si era finalmente riavvicinato all’idea di repubblica, non metteva che una condizione: che questa fosse purgata dei repubblicani. Per salvare la Democrazia dai pericoli di un “ismo” ostile, i nuovi termidoriani si soddisferanno volentieri di una democrazia senza democratici. Poco importa loro che l’individuo in carne e ossa sia privato dei diritti elementari della vita, quando i diritti dell’uomo restano incisi nel marmo. E’ in sostanza la conclusione alla quale ci conduce Claude Lefort, con le riserve d’obbligo. Si disegna nella filigrana del suo ragionamento niente meno che una forma di assoluzione dei regimi autoritari, che essi siano ispirati a Pinochet o a Mrs Thatcher. Perché «i regimi di oppressione in America latina, insopportabili a quelli che ne sono le vittime, odiosi a noi stessi, non costituiscono un modello universale, un polo d’attrazione, un adescamento mortale per uomini in rivolta contro l’ingiustizia» (25).

Le libertà proclamate alla fine del XVIII° secolo, «là dove sono colpite, tutto l’edificio democratico rischia di crollare», ci dice Claude Lefort; in cambio, e «sebbene non siano contingenti, i diritti economici, sociali e culturali, possono cessare di essere garantiti, anche se riconosciuti (io non vedo, del resto, nessun posto, né nell’Inghilterra di Mrs Thatcher, né nell’America di Reagan dove essi siano annullati in quanto principi), la ferita non è mortale, il processo resta reversibile» (26).

Umorismo macabro che avrebbero potuto apprezzare al giusto valore tutti quelli che sono stati annientati nei loro principi umani dalla miseria, se essi in precedenza avessero avuto diritto alla cultura democratica.

Si crederebbe un estratto di dialogo uscito dal libro di science-fiction Omega di Robert Sheckley. «Voi potete partire tranquilli, certi che nessuno dei vostri diritti è stato violato», risponde il giurista della «Società di protezione delle vittime», santuario dove l’eroe si è rifugiato per fuggire alle armi dei sicari che gli davano la caccia. «Ma loro mi vogliono morto» insorge il perseguitato. «Questo è vero. Ma noi non possiamo fare nulla. Una vittima è per definizione destinata ad essere uccisa». «Io credevo che voi agiste come un’organizzazione protettrice» insiste l’infelice impazzito. «Certo, ma noi proteggiamo i diritti delle vittime. I vostri diritti non sono stati infranti». Al contrario, poiché essi permettono che vi si uccida, ma nella legalità. Democrazia, quelli che vanno a morire ti salutano!

Che importa il contenuto purché si abbia il principio! La metafora medica sulla gravità del male diagnosticato dissimula la natura delle “lesioni” di cui soffre l’organismo sociale in democrazia. Sia, in termini… contingenti: esclusione, disoccupazione, sfruttamento, razzismo, repressione, fermo di polizia, controllo sociale, armamenti e militarizzazione, distruzione dell’ambiente naturale e regressione culturale, con, pendente, la minaccia, in caso di crisi sociale, di una sospensione temporanea di tutte le garanzie democratiche riconosciute in tempi ordinari.

Parlare di una « rivoluzione indefinita, sempre in cantiere», di una «rivoluzione democratica che accorcia i secoli», aggiogata a una «democrazia borghese [che] quelle che siano le violazioni dei diritti, le astuzie dell’ideologia dominante, contiene il principio dell’affermazione del diritto» (27), è fare buon mercato degli antagonismi sociali che la radicano dall’origine a una negazione del diritto, nella violazione permanente della sua affermazione nelle e dalle leggi.

Infatti, non importa quale Stato può attenersi al rispetto dei diritti «nel loro principio», se a lui è permesso d’usarne e di abusarne a suo modo nella realtà. Esso può ugualmente proclamare urbi et orbi le “libertà” del XVIII° secolo e quelle dei secoli a venire, anche quando la maggioranza degli individui è privata dei diritti economici, sociali e culturali che rendono un’esistenza “libera” e che ne sono il contenuto. Al contrario, questa maggioranza vuol fare di questi diritti la sostanza stessa del principio di libertà, ed è a nome dell’ideale che lo Stato si adopera a prevenire questa “lesione”. E gli esempi abbondano, mostrando quali mezzi sono allora utilizzati per sanare la piaga.

Una volta liquidate le vere opposizioni e messa al passo la critica, il diritto può riprendere il suo imperio su tutta l’estensione del sociale. Il «processo resta reversibile»! Visto quello che rappresentano e quelli che li rappresentano, nessun bisogno di sopprimere i diritti per renderli inoperanti nella loro “affermazione”. Al contrario! Robert Sheckley espone perfettamente il bilanciamento dialettico di questo principio di realtà politica. «Senza la legge, non avremmo privilegi per quelli che fanno la legge; questa è dunque una necessità assoluta», in una società «che mette l’accento sullo sforzo individuale, una società nella quale colui che infrange la legge è vincitore, una società che non solamente ammette il crimine, ma lo ammira e lo ricompensa, una società dove il non rispetto delle regole non è giudicato che nella misura del suo successo o del suo insuccesso». Il risultato paradossale è una società criminale con leggi destinate ad essere infrante». Lo Stato di diritto in qualche sorta!

 

La democrazia come ultimo privilegio

Nell’iconografia del 1789, una stampa rappresenta un contadino che porta sulla schiena un nobile e il curato, simboli dei gravami feudali. Se non avesse scrollato il fardello, il servo della gleba avrebbe atteso per lungo tempo ancora di nascere al mondo dei diritti dell’uomo. Sulle spalle del paesano odierno pesa tutto l’edificio dei partiti, dei sindacati e dell’intellighenzia, di tutti quelli che issati sulla sua schiena, tutto il mondo della rappresentazione che parla a nome del grande numero di cui ha saputo captare le voci. E tutte sussurrano all’orecchio del portatore che alleggeriranno il suo carico domani e che una scheda in più lo condurrà un passo in avanti sulla strada dello sgravarsi, fuori dalla portata dei cattivi pastori.

La celebre parabola di Saint-Simon sugli oziosi prende allora un nuovo senso: il mondo potrà essere un giorno liberato di tutti i suoi «rappresentanti» senza perdere nulla di essenziale! E allo stesso tempo guadagnando una nuova vita sociale?

 

Note:

 

1 – Rosa Luxemburg, Réforme ou Revolution (1898), Paris, Maspero, Oeuvres I, 1969, p.43.

2 – Jean Jaurès, L’Armée nouvelle (1915), Paris, UGE, 1969, p.250.

3 – Ibidem, p.249 e seg., 253.

4 – Ibidem, p.253.

5 – Pierre Leroux, Revue sociale, giugno-luglio 1847, citato in Armelle Le Bras-Chopard, De l’égalité dans la différence. Le socialisme de Pierre Leroux, Paris, PFNSP, 1986, p.216 e seg. Vedere M. Abensour, Le Procès des maîtres rêveurs, Arles, Sulliver, 2000.

6 – Karl Marx, Oeuvres I, le Capital I, Economie I, Paris, Pléiade, 1963, p.1129.

7 – Jean-Jacques Rousseau, Du contrat social (1762), Paris, Folio-Essais, 1964, p.189.

8 – Karl Kosch, Karl Marx (1938), Paris, Champ libre, 1971, p.195.

9 – Franz Neumann, Behemoth, Structure et pratique du national-socialisme (1933-1944), Paris, Payot, 1987, p.243.

10 – Jean-Jacques Rousseau, Du contrat social, op. cit., p.180.

11 – Jean-François Revel, «Raison pure et raison pratique», Commentaire, n.48, inverno 1989 – 1990, p.669.

12 – François Furet, Marx et la Révolution française, testi presentati, raccolti e tradotti da Lucien Calvé, Paris, Flammarion, 1986, p.54 e passim.

13 – «Sur la démocratie, la politique e l’institution du social», testo redatto e elaborato da Marcel Gauchet, dopo un corso tenuto da Claude Lefort all’università di Caen, in Textures n.2-3, 1971.

14 – Marcel Gauchet, Textures n.2-3, 1971.

15 – Solghenitsin, L’Archipel du Gulag I, Paris, Le Seuil, 1974, p.17.

16 – Spinoza, Traités des autorités théologique et politique (1670), Paris, Folio-Essais, 1954.

17 – Pascal, Pensée I, Editions de Michel Le Guen, Paris, Folio, 1997, p.90 e seg.

18 – Hélèn Fleury, «Shelley, un exilé parmi nous», préface à la Mascarade de l’anarchie, Paris- Méditerranée.

19 – Sigmund Freud, l’Avenir d’une illusion (1927), Paris, PUF, 1971, p.20,30.

20 – Jean-Jacques Rousseau, Discours sur l’économie politique (1760), Paris, Folio-Essais, 1993, p.95. Marx ne il Capitale cita questa frase in nota, aggiungendo «dice il capitalista» (Economie I, p.1207).

21 – Karl Marx, l’Idéologie allemande, OEuvres III, Philosophie, Paris, Plèiade, 1982, p.1064.

22 – Karl Marx, Critique de la philosophie politique de Hegel (1843), Philosophie, op. cit., p.1010.

23 – Claude Lefort, «Droits de l’homme et politique», Libre, n.7, 1980, p.41.

24 – Claude Lefort, l’Invention démocratique, «Avant-propos», Paris, Fayard, 1981, p.29.

25 – Claude Lefort, «Non, ce n’est pas un coup d’Etat militaire», les Nouvelle littéraires, 7-14 gennaio 1982.

26 – Claude Lefort, Essais sur la politique, XIX°-XX° siècles, Paris, Esprit-Seuil, 1953, p.86.

27 – Claude Lefort, l’Invention démocratique, op. cit., p.28.

* Tratto da «Réfractions» e tradotto da Walker