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Cartosio, Lo spirito dei wobblies

Lo spirito dei wobblies*

di Bruno Cartosio

Le grandi figure delle lotte e dell’organizzazione operaia negli Stati Uniti sono stati quasi sempre operai loro stessi. Molti di loro hanno pubblicato autobiografie, più che scritti teorici: da Terence Powderly, dei «Knights of Labor», a Samuel Gompers, padre padrone dell’American Federation of Labor, a William «Big Bill» Haywood, Elizabeth Gurley Flynn, Ralph Chaplin e «Mother» Jones, rappresentanti dell’Industrial Workers of the World per buona parte della loro vita. Di alcuni – uno dei più grandi, Eugene Debs, e uno dei più dottrinari, Daniel De Leon – sono stati raccolti scritti sulla natura, teoria e strategia dell’organizzazione politica e sindacale operaia, nessuno dei quali è paragonabile agli scritti teorici degli intellettuali marxisti e anarchici europei loro contemporanei (o a quelli, bisogna dire, degli operai fondatori del movimento operaio negli stessi Stati uniti del primo Ottocento, la cui cultura politica aveva radici profonde). La difficile saldatura tra teoria e prassi politico-sindacale non è facilmente sintetizzabile. Tuttavia, possono essere almeno ricordati alcuni degli elementi di difficoltà. I tempi accelerati dell’evoluzione sociale, produttiva e politica che sovvertiva continuamente l’ordine delle cose. La schiavitù, il nativismo xenofobo e il razzismo che escludevano gli afroamericani e presiedevano all’emarginazione iniziale dei gruppi immigrati poveri e non protestanti. Le diversità di lingua, cultura, religione e composizione sociale d’origine che frazionavano il mosaico dei milioni di immigrati operai ed erano sia l’ostacolo interno alla loro unione, sia il vantaggio di partenza su cui i padroni potevano contare per comandare tenendo divisi i lavoratori.

Infine, l’elemento su cui mette l’accento la parte finale dell’autobiografia di Big Bill Haywood: la repressione, brutale e diretta, attuata con ogni mezzo, dei movimenti sociali e politici di opposizione prima che la loro esperienza potesse sedimentare la cultura politica necessaria a un’elaborazione teorica non occasionale o di breve respiro. Con la repressione furono fatti fuori i «Knights of Labor» dopo il 1886 – dopo gli scioperi per le otto ore e i «fatti di Haymarket» che hanno dato il Primo Maggio al mondo – e con attacchi ancora più brutali furono distrutti tra il 1917 e il 1922 Iww, socialisti, comunisti, anarchici e dissenzienti di varia natura. Senza l’eliminazione degli altri, forse l’Afl non sarebbe rimasta l’unico filo di continuità nella storia del movimento sindacale negli Stati Uniti.

La storia di una vita come quella di «Big Bill» Haywood, nato nel 1869, raccoglie e racchiude gli elementi appena sintetizzati. Le parole di un minatore irlandese e l’esperienza in miniera insegnano all’adolescente Bill i rudimenti della lotta di classe e lo portano a entrare nei «Knights of Labor», la prima organizzazione di massa dei lavoratori negli Stati Uniti. Nel 1896, dopo che la repressione aveva pressoché spazzato via i Knights of Labor, entra nella Western Federation of Miners (Wfm), il combattivo sindacato dei minatori metalliferi dell’Ovest, nato tre anni prima.

Nella Wfm, Haywood viene eletto segretario-tesoriere nel 1901. Ne diventa anche la figura più popolare: grande e grosso, generoso, pieno di energia, spirito combattivo e oratore trascinante, Haywood si conquista la fiducia dei minatori in lotte di grande violenza. Diventa figura di portata nazionale: nel 1905, sotto la sua presidenza, si apre a Chicago il «Congresso continentale della classe operaia», l’atto fondativo dell’Iww, cui la Wfm contribuisce il contingente più numeroso.

Da quel momento e fino al 1920, la storia personale di «Big Bill» Haywood è indissolubile da quella dell’Iww. E’ una storia a tratti esaltante, in occasione di grandi vittorie come quelle dei minatori di McKees Rocks o di Spokane del 1909 o dei tessili di Lawrence del 1912; e a tratti deprimente, come nel caso della straordinaria lotta dei setaioli di Paterson del 1913 finita con la sconfitta. Spesso Haywood finisce sul banco degli imputati, come quando nel 1906 viene letteralmente, illegalmente deportato dal Colorado all’Idaho perché una montatura di padroni minerari, autorità politiche, polizia e agenti Pinkerton gli attribuisce l’accusa di avere fatto assassinare il governatore dell’Idaho. In altri casi le cose non sono così potenzialmente disastrose, ma l’antisindacalismo padronale con cui tribunali e politica sono largamente conniventi – non del tutto, per fortuna, come racconta lo stesso Haywood – rendono assai dura la vita a lui e ai suoi compagni.

Allo scoppio della prima guerra mondiale, gli Iww e i socialisti statunitensi (incluse le diverse componenti «nazionali» che del Partito socialista facevano parte) si dichiararono contro la guerra. E nel 1917, dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti (e dopo la vittoria della Rivoluzione in Russia), un’ondata di paura e di sciovinismo patriottico scatenò contro di loro e contro gli anarchici una repressione isterica. Gli wobblies furono destinatari di una violenza senza precedenti: sedi razziate e distrutte dalla polizia; militanti linciati, picchiati, incarcerati a centinaia. Più in generale, grazie alle leggi di emergenza varate ad hoc, migliaia di oppositori furono processati e finirono in carcere, centinaia furono deportati nei paesi da cui erano venuti; la stampa di sinistra fu sequestrata e distrutta, soppressa, censurata o esclusa dalla circolazione. Archivi, corrispondenza, carte, registri delle organizzazioni – dell’Iww in particolare – furono sequestrati o distrutti. «L’Iww era paralizzata – ammise Haywood nel 1920 -. Il ministero della giustizia aveva sbatacchiato l’organizzazione come un bulldog sbatacchia un sacchetto vuoto».

Lui stesso, a quel punto, era stato in carcere per quasi due anni. Uscito su cauzione, e ormai malato di diabete, ulcera allo stomaco e stanco, organizzò l’Ufficio di difesa legale dell’Iww. Era anche tornato a bere. Dopo un’iniziale fase positiva cominciò a perdere colpi e i compagni che lo aiutavano, privi dell’esperienza di quelli in carcere, non erano in grado di ovviare alle sue trascuratezze e sviste, ai suoi errori e alla sua stanchezza. Inoltre, le tensioni interne erano acutizzate dalle difficoltà economiche, legali e organizzative. Della sostituzione di cui fu oggetto, con ritegno, scrive solo che «segretario del Comitato generale di difesa venne eletto John Martin». Mentre faceva giri di conferenze per raccogliere fondi e tenere viva una qualche opposizione, giunse a conclusione il percorso legale che lo riguardava. La condanna a vent’anni di galera avrebbe messo fine alla sua libertà su cauzione.

Invitato dai bolscevichi a espatriare nella Russia sovietica e a partecipare al varo dell’Internazionale sindacale rossa, Haywood – che aveva partecipato alla fondazione del Partito comunista negli Stati Uniti nel 1919 e si era iscritto al partito – decise di lasciare il paese. Il 31 marzo 1921 si imbarcava con un passaporto falso a Hoboken, sulla sponda del New Jersey di fronte a Manhattan, sulla Oscar II diretta a Riga, in Lettonia. Uscito sul ponte proprio mentre la nave passava davanti alla statua della Libertà, scrive: «Salutando la vecchia megera con la sua fiaccola levata, pensai: `Addio, per troppo tempo mi hai voltato le spalle. Me ne vado nel paese della libertà’». Il racconto autobiografico di Big Bill Haywood finisce qui. Le ultime poche righe sono dedicate al primo incontro con Lenin, avvenuto qualche giorno dopo l’arrivo a Mosca: «Avevo chiesto al compagno Lenin `se le industrie della Repubblica dei Soviet sono dirette e amministrate dagli operai’. La sua risposta fu: `Sì, compagno Haywood, è questo il comunismo’». Col senno di poi, pochi gli avrebbero perdonato quella fiducia, che pure tanti altri allora condivisero.

Agli anni di «Big Bill» in Urss fino alla morte nel 1928, agli effetti negativi della sua «diserzione» – come la chiamarono una parte dei suoi compagni – sull’Iww, e alla scrittura dell’autobiografia sono state dedicate molte pagine. Alcune, per esempio quelle scritte dal wobbly Ralph Chaplin vent’anni dopo la sua morte, sono condizionate dal risentimento personale e dall’anticomunismo; in altre, come quelle in cui Emma Goldman racconta dei loro incontri a Mosca, risaltano insieme l’umana simpatia per l’antico compagno di lotta e la disapprovazione per la sua assenza di critica politica verso i bolscevichi. I biografi come Peter Carlson e gli storici, da Melvyn Dubofsky a Philip Foner, sono stati sostanzialmente equanimi nei suoi confronti. A Mosca, Haywood fu accolto come un eroe, scrive Carlson in Roughneck: «I delegati al Congresso dell’Internazionale comunista lo applaudirono alzandosi in piedi»; ma il resto dei suoi anni non furono altrettanto esaltanti.

A lui e a un altro wobbly di origine olandese fu affidata alla fine del 1921 l’organizzazione della colonia industriale di Kuzbas, nel bacino carbonifero di Kuztnez. Haywood prevedeva di far venire alcune migliaia di minatori e tecnici dagli Stati Uniti, ma ne arrivarono meno di 500, con mogli e figli al seguito. Poi, i problemi di salute costrinsero lui a lasciare la Siberia per Mosca e la durezza della vita convinse molti ad abbandonare il progetto. Haywood rinunciò all’incarico nel 1923. Fece conferenze in giro per il paese e, dalle sue due camere nell’Hotel Lux, iniziò la stesura dell’autobiografia. Tutti gli americani di passaggio a Mosca gli facevano visita e molti giornalisti e militanti – tra cui anche l’italiano Nicola Vecchi, dell’Unione sindacale italiana – ebbero interviste con lui.

Da una di queste, concessa al corrispondente da Mosca del New York Times, Walter Duranty, risulta che abbia detto: «Il problema di noi vecchi wobblies è che noi sappiamo come dargliele ai crumiri, alle guardie delle miniere e alla polizia, o fare discorsi di battaglia a una folla di scioperanti, ma non la sappiamo così lunga come i russi su queste cose ideologiche… Questi russi danno un mucchio d’importanza alla teoria ideologica e, se non stanno attenti, finiranno per fare a pugni uno di questi giorni». Stanco, malato, vinto dalla nostalgia e forse dalla delusione, ma non cieco, il vecchio wobbly.

Nel 1948, Ralph Chaplin ipotizzò che tutto quanto Haywood scriveva a Mosca, dalle lettere ai compagni negli Stati Uniti all’autobiografia, fossero controllate. «Una cosa era sicura – scrive Chaplin con un’impossibile certezza – le lettere di Bill mi sembrava che venissero scritte con qualcuno che gli soffiava sul collo. Mi arrivarono voci che stava segretamente scrivendo un diario in cui raccontava la storia vera delle sue esperienze nella `Patria dei lavoratori’ e che aveva predisposto le cose in modo tale che nel caso della sua morte mi fosse trasmesso tramite un corriere». Gli storici sono invece molto meno propensi a credere a un controllo esterno sulla sua mano. Del resto, la qualità stessa dell’autobiografia – gli scompensi, una qualche disorganicità e alcuni errori, ma anche la vivezza non burocratica di tante parti della narrazione – non sembra sostenere una tale ipotesi; sembra piuttosto corrispondere ai modi in cui potevano funzionare un umore e una lucidità variabili e una memoria divisa tra selettività, reticenza e impulso a dire la verità.

Di fatto, Haywood non tornò più negli Stati Uniti da vivo. Due diversi attacchi di paralisi schiantarono la «vecchia quercia», come lo aveva definito affettuosamente Emma Goldman. Morì il 18 maggio 1928. Fu cremato e mentre metà delle sue ceneri furono sepolte il giorno dopo ai piedi delle mura del Cremlino, a fianco di quelle dell’altro americano John Reed, l’autore dei Dieci giorni che sconvolsero il mondo, l’altra metà fu spedita negli Stati Uniti, dove fu sotterrata nel cimitero di Waldheim, dietro il monumento che ricorda i «martiri di Chicago» impiccati nel 1887, e fianco a fianco con Lucy Parsons, Emma Goldman, Elizabeth Gurley Flynn, Joe Hill, William Z. Foster e altri wobblies e militanti della sinistra negli Stati Uniti.

 

* prefazione al libro «Big Bill», autobiografia di William «Big Bill» Haywood, uno dei fondatori degli «Industrial Workers of The World», pubblicata da manifestolibri.

scritta da Bruno Cartosio