Skip to content


LA STORIA PARTICOLARE DI UN PICCOLO SINDACATO DI BASE

Umberto Ottone (“Collegamenti”, n 6/2024) Una riflessione sullo stato del mondo del lavoro oggi e sulla condizione attuale del sindacalismo tradizionale e di base potrebbe partire da una microstoria, quella di una piccola organizzazione sindacale nata a livello locale (nella città di Pinerolo) nel 1995 e dopo pochi anni associatasi alla CUB, una storia raccontata nel libro di Luca Perrone, Abbiamo fatto un sindacato – Enrico Lanza: una vita dalla parte dei lavoratori, edito da DeriveApprodi nell’aprile 2022.

Come spiegare la tenuta dei sindacati confederali, che tra gli anni Ottanta e Novanta parevano sulla strada del declino? Non si può ragionare sulla tenuta del sindacalismo concertativo prescindendo dalla vertenza del 1980 alla Fiat, e dalle vicende che hanno caratterizzato gli anni Ottanta, fino agli accordi del 1992-93 sulla scala mobile, un decennio che segna una vera e propria cesura tra un prima e un dopo, un periodo di lotte e di conquiste operaie ed un successivo periodo di perdite di salario e diritti.
A partire dagli anni Ottanta i rapporti di forza tra Capitale e Lavoro mutano sempre più a favore del Capitale, è quella che Gallino definisce la “reconquista” del capitalismo, la “lotta di classe dall’alto” condotta con le armi della finanziarizzazione, delle delocalizzazioni e della disvalorizzazione del lavoro.

Che l’aria fosse cambiata lo avevano capito prime fra tutte le burocrazie sindacali. Racconta Enrico Lanza:

“Quando la Fiat annuncia i ventitremila licenziamenti, c’è un grande dibattito nella Flm, nella Fim. La Cgil e il Pci dicevano che non bisognava occupare la fabbrica ma fare lo sciopero articolato. Ma gli operai hanno presidiato, la gente era partita per la lotta dura. […] Contro questa forma di lotta c’erano la destra della Cisl e la burocrazia della Cgil, che capivano che si andava verso una sconfitta, meglio di noi. […] la marcia dei quarantamila era denigrata solo da noi che lottavamo e si sentiva dire: ‘E certo, non si può andare avanti senza lavorare’. […] Quello che non avevamo capito è che era la fine di un periodo storico, che noi avevamo vissuto e non ci siamo nemmeno resi conto di quello che facevamo”(cit. pp. 95-96).

Alla marcia dei quarantamila seguirono l’accordo del Ministro Scotti con le parti sociali nel 1983 per la riduzione della scala mobile, l’ulteriore taglio della scala mobile con il “decreto di San Valentino” nel 1984, che convertì un accordo delle associazioni imprenditoriali con Cgil e Uil, ma non la Cgil. Contro il decreto di San Valentino, poi convertito in legge, il Pci di Enrico Berlinguer propose un referendum abrogativo che confermò il taglio della scala mobile, poi definitivamente abrogata con la firma del protocollo di intesa tra il Governo Amato I e le parti sociali il 31 luglio 1992. Si è così arrivati, con il consenso delle principali burocrazie sindacali e della maggioranza degli italiani, alla scomparsa della scala mobile, il più efficace strumento di salvaguardia del potere di acquisto dei salari.
Da lì in poi, ciascuno dei soggetti in gioco nella lotta di classe ha cercato di trovarsi un posizionamento che gli consentisse di sopravvivere nella nuova situazione che si era venuta a creare: la fine del periodo dell’ascesa e delle conquiste del movimento operaio e l’inizio di quella che giustamente è stata definita una “lotta di classe al contrario”. Le burocrazie sindacali hanno scelto di scambiare i diritti dei lavoratori (al lavoro sicuro, al reddito, alla libertà di organizzazione, alla lotta …) con il loro diritto di esistere, assumendo il ruolo di mediatori tra i capitalisti e i loro governi da una parte e i lavoratori dall’altra (ovviamente, a tutto vantaggio dei primi) e di enti erogatori di servizi. Questa duplice veste garantiva e continua a garantire alle burocrazie sindacali le consistenti risorse economiche necessarie a mantenere in vita i diversi apparati che le compongono ed ai lavoratori servizi di cui abbisognano. Ai lavoratori, sempre più poveri, precari e ormai in balìa dei datori di lavoro, non restava che cercare di salvare la pelle disciplinandosi vieppiù e sottomettendosi alle regole imposte dalle politiche neoliberiste. Soltanto una minima parte di lavoratori, quelli più combattivi, ebbero la forza e il coraggio, di opporsi alla deriva dei diritti dei lavoratori dando origine al sindacalismo di base.

Per quando riguarda i caratteri dell’insediamento del sindacalismo di base, i suoi punti di forza e quelli di debolezza, ci si può rifare all’esperienza dell’ALP, a come è nata ed agli aspetti che l’hanno caratterizzata nel suo primo periodo di vita, riportando anche in questo caso le parole di Enrico Lanza:

“L’idea del sindacato di base è nata quando, usciti dalla Fim, ci siamo chiesti cosa fare. E la risposta è stata: ‘Facciamo un sindacato’. […] Stranamore in quegli anni è stato un luogo molto importante a Pinerolo, come Alp è stato una novità per panorama pinerolese. E’ stato un luogo di cultura e di attività politica straordinario. A Stranamore è nata l’idea di fare delle cose e quando il vaso ha traboccato, noi avevamo un bel gruppo di delegati dell’Skf, Beloit, fabbriche tessili, qualcuno era già della Cub nella scuola. Si discuteva, c’era chi voleva entrare nella Cub, chi voleva essere più vicino ai partiti di sinistra come Rifondazione comunista e alla fine è prevalsa l’idea operaia: facciamo una cosa tutta nostra” (cit. pp. 123-124). “I collettivi in realtà non avevamo da costruirli, perché allora nelle fabbriche gli operai erano organizzati. Non aspettavano il sindacato per fare il collettivo attorno ai loro delegati. La vita di fabbrica in quegli anni era diversa, era attiva. Se non fosse stato così, Alp non avrebbe potuto nascere. Chi stava bene nella tranquillità stava con Cgil, Cisl e Uil, perché doveva cercarsi delle grane? Avevano i permessi, la copertura, magari riuscivano pure a prendere la categoria. Venire ad Alp voleva dire troncare con tutte queste cose e mettersi in discussione. In tutte le fabbriche dove eravamo presenti c’erano già i collettivi, cioè c’erano un paio di delegati dietro i quali c’era un gruppo, che trascinava sia nella discussione che nelle lotte. Noi abbiamo cercato di organizzare i collettivi! Quando nasce Alp è perché c’è questa esigenza non solo da parte del gruppo dirigente, ma anche da una parte di lavoratori. Eravamo stufi di ‘bere’ degli accordi che non ci piacevano, una trasformazione del sindacato evidente per cui non c’era più un confine netto tra sindacato, governo, padroni” (cit. p. 128).

Ecco gli ingredienti per la nascita di un sindacato di base: la perdita del senso di appartenenza al sindacato in cui si era militato per anni; un luogo fisico dove ritrovarsi e discutere; alcuni lavoratori che nei posti di lavoro hanno conquistato la fiducia e la stima dei loro compagni ed hanno alle spalle una “storia” sindacale; un collettivo di lavoratori; la totale autonomia da qualsiasi partito, governo, padrone.

I caratteri originari dell’Alp nel tempo si sono in parte persi. Alcuni dei militanti che avevano dato vita all’ALP, ora invecchiati e pensionati, continuano a “presidiare” la sede, ma quello che manca è il ricambio generazionale e soprattutto il conflitto, la cui pratica ha caratterizzato i primi anni dell’ALP e che ancora oggi dovrebbe essere la ragione dell’esistenza di un sindacato di base. Invece, nella quotidianità, l’ALP si occupa di assistenza fiscale e vertenze individuali, nella pratica si è trasformata in un “sindacato di servizi”, anche se non perde occasione per prendere posizione su importanti questioni, partecipare attivamente a iniziative e trovare collegamenti con i movimenti.

Sul territorio pinerolese l’ALP non patisce la concorrenza di altri sindacati di base, essendo l’unica realtà presente nei luoghi di lavoro in alternativa a Cgil, Cisl, Uil e ai sindacati “gialli”. Ma il problema è che l’ALP, nata come sindacato “di base”, alternativo (a Cgil, Cisl e Uil) e conflittuale si ritrova oggi, in un certo senso, “snaturata”: manca la “base”, che dovrebbe esserne l’ossatura, cosicché essa sopravvive grazie al lavoro di “professionisti” (anche se non retribuiti); nella pratica quotidiana, svolge le medesime attività di servizio che offrono i grandi sindacati istituzionalizzati ed infine non riesce a far esplodere il conflitto, mancando il soggetto che ne dovrebbe essere l’agente.
Le difficoltà dell’oggi non l’hanno portata verso derive corporative o pratiche concertative, si potrebbe dire che ha conservato quella “purezza” iniziale che le permette di essere ancora un punto di riferimento per coloro che non hanno abdicato alla lotta e continuano a battersi per un mondo migliore.
Ma se il presente per l’ALP è senz’altro problematico, con la chiusura di tante aziende del territorio e l’impossibilità di partecipare alle elezioni delle RSU nelle fabbriche, avendo scelto di non sottoscrivere il Testo Unico sulla Rappresentanza del 10 gennaio 2014, il futuro potrebbe ridarle un nuovo splendore, proprio considerando le sue caratteristiche originarie che non sono andate perdute nel tempo: il radicamento nel territorio; la qualità, dedizione, impegno e serietà dei suoi militanti; la possibilità di potersi muovere liberamente nel conflitto tra Capitale e Lavoro avendo conservato piena autonomia e indipendenza dagli altri soggetti in gioco nella lotta di classe.

 

 

 

Posted in Lavoro, mobilitazioni sindacali, recensioni.

Tagged with , , .


No Responses (yet)

Stay in touch with the conversation, subscribe to the RSS feed for comments on this post.



Some HTML is OK

or, reply to this post via trackback.