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SUL SALARIO MINIMO: ALCUNE BANALITÀ DI BASE

Dal n. 5 di “Collegamenti”, novembre 2023 riportiamo questo articolo di Cosimo Scarinzi

Nel corso dell’estate passata, d’improvviso, il tema del salario minimo, sino a quel momento considerato assolutamente non centrale, ha assunto una straordinaria rilevanza politica e mediatica.

È opportuno, di conseguenza, ricapitolarne alcune caratteristiche:

  • nella gran parte dei paesi europei il salario minimo esiste e, con ogni evidenza, non ha alcun carattere di eversione dell’ordinario funzionamento delle relazioni sociali capitalistiche.

Vale la pena di aggiungere che in più di un caso è superiore al salario medio delle lavoratrici e dei lavoratori italiani. È, di conseguenza, il caso di domandarsi perché nel contesto italiano l’introduzione di questa misura solleva un’opposizione così forte e determinata.

  • l’argomento principale, un vero e proprio somaro di battaglia, che gli oppositori al salario minimo sollevano è che la stragrande maggioranza delle lavoratrici e dei lavoratori italiani lavorano in categorie dove i salari sono stabiliti dai contratti collettivi nazionali e che non ve ne sarebbe quindi alcun bisogno.

In realtà si tratta di una posizione ai limiti del surreale se si considera il peso del cosiddetto lavoro povero in Italia e cioè del lavoro contrattualmente retribuito intorno ai 5 Euro lordi all’ora. Nella pubblicistica corrente molti sostengono che il problema sarebbero i cosiddetti “contratti pirata”, e cioè dei contratti firmati da sindacati direttamente finanziati dal padronato e nella realtà inesistenti. In realtà i tre principali contratti del lavoro povero sono firmati da Cgil, Cisl e Uil nei comparti Vigilanza privata, Multiservizi e Servizi Fiduciari e riguardano diversi milioni di lavoratori;

  • siamo di conseguenza di fronte a una situazione in cui un intero

settore del capitalismo italiano, in particolare ma non solo nel terziario, esiste grazie al lavoro povero, al punto che potremmo parlare di una vera e propria lumpen-borghesia.

Alle lavoratrici e ai lavoratori inquadrati in questi contratti va aggiunto il mondo del lavoro nero, delle false partite iva, delle lavoratrici e dei lavoratori che operano per le imprese in subappalto, delle lavoratrici e dei lavoratori con contratti part time involontari ecc con l’effetto che la nostra classe viene scientificamente spaccata fra una parte che “gode” di contratti “normali” e una parte che ne è esclusa.

Premesso ciò, è importante ricordare che i salari delle lavoratrici e dei lavoratori non “poveri” sono fermi da trent’anni, con l’effetto che la quota parte della ricchezza sociale che va al lavoro, a tutto il lavoro, si è straordinariamente ridotta.

In realtà vi è un legame strettissimo fra precarizzazione, indebolimento dei diritti, sistema degli appalti ecc. e indebolimento generale della forza contrattuale della nostra classe oltre che con le derive corporative che si affermano nei limitati settori di classe che hanno la possibilità di ottenere condizioni contrattuali meno indecenti a livello aziendale e categoriale;

  • SUL TEMA DEL SALARIO MINIMO SI SONO DATE DUE INIZIATIVE DA PARTE DI SOGGETTI POLITICI DIVERSI:

  1. una prima proposta di legge promossa da Unione Popolare (Prc, PaP, ecc.) che chiede un salario minimo di 10 euro lordi indicizzati e completamente a carico delle aziende;

  2. una dell’opposizione parlamentare (Azione, M5S, PD e SI) che chiede 9 Euro, non indicizzati e parzialmente coperti da investimenti pubblici. È evidente la preoccupazione dell’opposizione parlamentare di rendere “accettabile” la sua proposta di legge nella misura in cui non colpirebbe la stessa esistenza della lumpen-borghesia.

  • fatto salvo che di regola il triste destino delle proposte di legge popolari è quello di finire in un cassetto, è evidente che l’attuale maggioranza di governo – la cui base elettorale, particolarmente quella di Fratelli d’Italia, è in larga parte proprio la lumpen-borghesia – non ha la minima intenzione né disponibilità ad accettare l’introduzione del salario minimo né nella versione hard dell’Unione Popolare, né nella versione soft dell’opposizione parlamentare, anche se non è da escludersi qualche intervento ulteriormente depotenziato di sostegno al reddito a fini elettorali.

Non a caso l’elaborazione di una proposta sul salario minimo è stata affidata ad un ente, una vera e propria camera delle corporazioni, come il CNEL che da anni era in attesa di dissoluzione e che è diretto da dichiarati avversari del salario minimo come Renato Brunetta;

  • l’attenzione a questo punto va posta sul fatto che sino a questo momento la questione è stata affrontata non sulla base di una mobilitazione dei lavoratori e delle lavoratrici per aumenti salariali ma come iniziativa di una serie di soggetti politici, Unione Popolare che ha l’esigenza di proporsi come una sinistra radicale e di conquistare il consenso di settori di lavoratrici combattive/i e l’opposizione parlamentare che, in presenza di un governo di destra, ha l’esigenza di ricollocarsi come “sinistra”, mettendo sotto il tappeto alcuni decenni di serena accettazione delle politiche di taglio dei salari, indebolimento dei diritti ecc.

Che poi l’operazione politico-elettorale riesca è tutto da vedersi, decenni di disincanto nei confronti della “politica” nelle classi popolari che hanno portato ad un’astensione elettorale nell’ordine del 50% non sono così facilmente recuperabili, ma in ogni caso sappiamo, in particolare per quel che riguarda l’andamento delle votazioni, che il futuro riposa sulle ginocchia degli dei.

È però un fatto da non sottovalutare che per la prima volta da anni la questione del salario, o quantomeno del lavoro povero, è posto all’attenzione dell’opinione pubblica e che ciò potrebbe suscitare speranze ed energie che negli anni scorsi non abbiamo verificato.

  • sulla questione del salario minimo, d’altro canto, vi è stata una significativa modificazione delle posizioni sia di parte dei sindacati istituzionali che di quelli di base.

Come è noto tradizionalmente CGIL CISL UIL sono sempre state contrarie all’intervento legislativo sulle retribuzioni ritenendolo una riduzione del ruolo della contrattazione e, di conseguenza, del loro ruolo.

In un quadro politico radicalmente modificato con l’ascesa al governo della destra la CGIL ha cambiato posizione facendo del salario minimo un’occasione di mobilitazione generale contro il governo stesso all’interno di una piattaforma straordinariamente più radicale rispetto a quella che la caratterizzava ancora qualche anno addietro. A ben vedere nihil sub sole novi. E’ stato, per certi versi divertente ascoltare il capo del governo, invitato al congresso della CGIL, che ricordava ai partecipanti ciò che avevano sempre sostenuto nel merito della  centralità della contrattazione.

La CISL, fedele alla sua tradizionale posizione per la quale non vi sono governi nemici, è anche questa non è una novità, si tiene invece alla difesa della contrattazione; su di che tipo di contrattazione si tratti non vale la pena di insistere.

In che misura la discesa in campo della CGIL, il suo porsi come soggetto politico/sociale in grado di costruire una fitta rete di relazioni con l’associazionismo legato alla sinistra e al mondo cattolico avrà una ricaduta sul conflitto di classe non è possibile valutare oggi ma merita attenzione.

Nell’area del sindacalismo di base vi sono tentativi di organizzare un intervento più consistente nell’universo del lavoro povero, siamo però all’inizio di un percorso la cui consistenza è tutta da valutare e che vede situazioni radicalmente differenti fra le regioni del centro sud e quelle del centro nord.

Guardando la questione da un punto di vista radicalmente diverso rispetto a quello esposto sinora credo si pongano due domande:

  • la rivendicazione di un salario minimo dignitoso e, non dimentichiamolo, di un reddito che permetta di vivere a tutti i membri della nostra classe è condivisibile? La risposta è scontata.

Oltre ad essere una rivendicazione giusta in sé, il suo ottenimento sarebbe una condizione favorevole e persino necessaria per costruire un’iniziativa generale delle lavoratrici e dei lavoratori sulla questione del salario, dei tempi e dell’organizzazione del lavoro, della difesa del welfare.

D’altro canto, di per sé, e in mancanza di una mobilitazione dei soggetti sociali direttamente interessati, rischia di essere mera propaganda e, senza negare una qualche utilità alla propaganda, ne vanno riconosciuti gli evidenti limiti.

  • ed è proprio sul percorso da affrontare per concorrere a costruire i necessari rapporti di forza che va posta l’attenzione.

Non possiamo immaginare che sia opportuno, utile, efficace spostare gli assi di intervento che ci hanno caratterizzato negli ultimi decenni dal lavoro salariato dei settori privati e pubblici al “lavoro povero” e agli strati proletari più pesantemente sfruttati per risolvere i problemi che affrontiamo.

Si tratterebbe, infatti, di un salto di paradigma politicista e inefficace che affiderebbe proprio ai settori sociali strutturalmente più deboli un ruolo generale che non sono in grado di assovere visto che non sono in grado di colpire direttamente e pesantemente l’accumulazione capitalistica.

Si deve puntare ad un intreccio virtuoso fra conflitto aziendale e categoriale e mobilitazione per la ricomposizione dell’unità della nostra classe che sappia coinvolgere gli strati in cui è attualmente così fortemente segmentata.

Il vero nodo, di conseguenza, è nelle forme possibili in questa fase quello dell’esercizio della forza e cioè la capacità di costruire conflitto, di ottenere risultati immediati e percepibili e nel contempo di comunicare ad ampi settori di classe la nostra proposta generale.

In altri termini deve crescere in misura significativa accanto alla capacità di organizzazione del conflitto il ruolo educativo del sindacato, la sua capacità di orientamento, di discussione, di confronto con i settori di classe che organizza o che quantomeno raggiunge.

È su questo percorso che va concentrata la nostra riflessione oggi.

 

Posted in Lavoro, Politica enonomica, Salari.

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