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Fondi pensione: un bilancio critico

Facciamo il punto sui fondi pensione grazie a questo articolo di Renato Strumia pubblicato sul n. 6/marzo 2024 di “Collegamenti per l’organizzazione diretta di classe”

 

Sono passati ormai oltre 30 anni dalla istituzione normativa, anche in Italia, dei fondi pensione, nella loro versione aggiornata (1). Naturalmente c’erano già dei fondi pensione, prima di quella data, espressione storica di forme di welfare aziendale, diffuse soprattutto in ambito bancario-assicurativo (quella della Cariplo risaliva al 1837), ma presenti anche in altre grandi aziende con atteggiamento paternalistico e/o orientate all’integrazione della manodopera nel sistema aziendale.
La normativa sui fondi pensione, varata nel 1993, non cade però in un momento “casuale”: va correttamente collocata nella fase turbolenta che va dal 1992 al 1995. Nel 1992 c’è la grande crisi italiana, che vede l’esplodere del debito pubblico, la crisi valutaria, la svalutazione della lira, l’abolizione della scala mobile, l’autunno “dei bulloni”: è l’estate in cui il governo Amato tosa i conti correnti del 6 per mille e attacca, per la prima volta, le pensioni. E’ l’autunno della manovra da 90.000 miliardi di lire: tra le altre cose, si attacca il principio che si possa andare in pensione con il sistema retributivo, in specifico con un assegno legato alla media degli stipendi degli ultimi 5 anni, e si allunga la base di calcolo a 10 anni, per ridurre l’importo del trattamento.
È il primo colpo di piccone che porta, nonostante le grandi lotte contro la riforma delle pensioni del governo Berlusconi tentata nell’autunno 1994, alla riforma Dini dell’anno successivo (1995) e all’introduzione del sistema contributivo per gli assunti dopo quella data: l’assegno di pensione corrisponderà ai versamenti effettivi, rivalutati nel tempo, ad un tasso che corrisponde al tasso medio di crescita del PIL nel quinquennio precedente. Visti i bassi tassi di crescita registrati, sistematicamente, dopo quella data, possiamo attenderci una rovinosa caduta delle pensioni future, ma questo è un altro discorso: o meglio, è l’altra faccia della stessa medaglia.
L’istituzione dei fondi pensione mirava proprio a questo: a far digerire alla classe il taglio degli assegni, a fronte di una “compensazione”, consistente nella possibilità di costruire un “secondo pilastro”, da affiancare a quello della previdenza pubblica, una volta minata e smantellata. Il principale incentivo era la predisposizione di un complesso meccanismo fiscale di esenzione e deduzione, per fare decollare, da una parte, l’alternativa alla previdenza pubblica, dall’altra un ricco mercato per banche, assicurazioni e SIM private.
In questo contesto si mettevano in campo due principali strumenti per fare crescere la previdenza complementare:
a) i fondi pensioni negoziali (contrattati a livello sindacale e prima forma embrionale degli “enti bilaterali”), dove far confluire gradualmente tutto il segmento del lavoro dipendente. Questo è il “secondo pilastro”;
b) i fondi pensione aperti (prodotti finanziari specifici, simili ai fondi comuni, offerti dal sistema bancario e assicurativo), destinati a tutti, ma in particolare a lavoratori autonomi, professionisti, partite Iva e via dicendo. Una variante dei fondi pensione aperti diventeranno poi i PIP (piani individuali pensionistici), investimenti che assumono la veste contrattuale di polizze assicurative. A sua volta i PIP si divideranno in “vecchi” e “nuovi” per seguire le previsioni normative che si susseguono sulla materia. L’insieme di questi strumenti rappresenta il “terzo pilastro”.
Il decollo troppo lento del sistema dei fondi pensione, sia nella variante negoziale, sia nella variante “pura” di mercato, finisce poi per innescare un tentativo di accelerazione con la riforma Maroni del 2005 (2), destinata ad entrare in vigore nel 2007.
Il principale obiettivo del decreto Maroni è immettere nel sistema della previdenza complementare una massa critica di risorse finanziarie tale da costituire un salto di qualità. Ci vogliono soldi per dare una sferzata al sistema. Quei soldi possono essere trovati solo nel TFR, accantonato dalle imprese, per conto dei lavoratori.
Si tratta di vincere due resistenze: quella dei lavoratori, che preferiscono tenersi il TFR perché non si fidano dei fondi pensione; quella dei padroni, che usano il TFR accantonato per finanziarsi a basso costo. Alla fine, il compromesso si trova, naturalmente sulla pelle dei lavoratori: il governo consente alle piccole imprese (con meno di 50 addetti) di tenersi il TFR, mentre le altre devono trasferire l’accantonamento alla Tesoreria dello Stato (fin quando il lavoratore non lo richiede per fine servizio o perché gli serve un’anticipazione); i fondi pensione ottengono il meccanismo del “silenzio-assenso”. Vale a dire che tutti i neoassunti, dal 1.1.2007, hanno sei mesi di tempo per esprimere un diniego esplicito all’adesione al fondo pensione; trascorso questo tempo, la loro adesione è automatica, con conferimento obbligatorio del TFR. Se uno rifiuta e sceglie di tenersi il TFR, perde il contributo aziendale al fondo pensione.
Dal 2007 si introduce un ulteriore vantaggio fiscale, che si aggiunge alla preesistente possibilità di dedurre dal reddito il contributo al Fondo (fino a 5164 euro l’anno): la tassazione sulla prestazione finale scende al 15%, con possibilità di un ulteriore, graduale, abbassamento fino al 9%. Rispetto ad un TFR tassato mediamente al 23%, si tratta di uno sconto sensibile.
A scatenare le polemiche è comunque la questione del “silenzio-assenso”: nelle campagne di boicottaggio del sindacalismo di base, la macchina dei fondi pensione diventa una trappola per topi, dove il formaggio lo devono mettere i lavoratori, con il loro TFR. Ed è una trappola vera a propria, perché il riscatto del fondo pensione non ha l’elasticità della liquidazione (fatta salva l’anticipazione per cause gravi, che ha caratteristiche analoghe): infatti può essere prelevato soltanto alla fine della vita lavorativa e quasi obbligatoriamente nella formula della rendita vitalizia. In caso di prematura dipartita, a pensionamento avvenuto, il montante (convertito in rendita) viene acquisito dal Fondo e gli eredi non vedono più nulla…
Fatta questa lunga premessa, vale la pena provare a ragionare sui dati, per verificare come è stato “elaborato” dalla classe il tema dei fondi pensione e le conclusioni che se ne possono trarre.
I dati di fine 2023 (3) ci dicono che in questo trentennio si sono accumulati nei fondi pensioni italiani, in totale, poco più di 222 miliardi di euro. Sembra una cifra molto consistente, ma ben poca cosa se rapportata al totale della ricchezza finanziaria dei risparmiatori italiani, che ammontava, alla stessa data del 31.12.2023, a ben 5.216 miliardi di euro (4). Facendo bene i conti, si tratta di poco più del 4.25%: una percentuale ben distante dal rappresentare una possibile leva strategica di investimenti risolutivi, come favoleggia qualcuno anche nel campo “riformista”, o il modo per influenzare dall’interno delle assemblee societarie le scelte delle imprese capitalistiche…
In totale questo patrimonio è suddiviso in 10.7 milioni di posizioni previdenziali individuali, che appartengono a circa 9.6 milioni di individui (visto che alcuni possiedono più di una forma pensionistica complementare).
E’ piuttosto interessante analizzare nel dettaglio la presenza dei “lavoratori dipendenti” tra questi aggregati, per capire fino a che punto la previdenza complementare ha “fatto presa” sui subordinati e sulle loro scelte. Occorre anzitutto sottrarre dal totale i fondi “preesistenti”, che rispondevano, come abbiamo già detto, a criteri particolari (casse professionali o “paternalismo” aziendale): 684.000 le posizioni complessive, di cui 510.000 sono i “lavoratori dipendenti”.
Restano quindi circa 10 milioni di posizioni complessive. Tra questi, ben 7.879.758 sono in capo a lavoratori dipendenti. Ma il dato più sorprendente è che questa massa di salariati (che ammonta a circa il 50% dei lavoratori dipendenti italiani) ha suddiviso il proprio “investimento previdenziale complementare” sull’intera gamma degli strumenti disponibili, senza farsi mancare niente.
Una buona metà (3.759.463) ha scelto, coerentemente a mio avviso, il fondo pensione negoziale (che in Italia è quasi esclusivamente “di categoria”): sono noti i vantaggi in termini di spese di accesso, commissione di gestione, apporto del contributo datoriale, bassa incidenza dei costi complessivi legata alla dimensione delle masse amministrate, e così via.
Un numero meno rilevante, ma comunque consistente (1.106.852), ha però scelto il fondo pensione aperto, una soluzione in genere proposta dal canale bancario, con costi già molto più elevati della prima soluzione; si può forse spiegare con la voglia di sfruttare la deduzione fiscale, magari in assenza di un fondo negoziale di categoria. Oppure con la capillarità del sistema bancario, che con la sua “rete” ha battuto sul tempo la capacità di collocamento dei “piazzisti” sindacali dei fondi di categoria.
Ma la vera sorpresa è nel numero dei lavoratori dipendenti che hanno comprato un “PIP”, ovvero un prodotto previdenziale spinto tipicamente dalle assicurazioni o dalla banca-assicurazione. Sono ben 2.417.753 i lavoratori dipendenti che hanno sottoscritto un PIP “nuovo” e circa 108.000 quelli che hanno sottoscritto un PIP “vecchio”. In genere il PIP è, in assoluto, il prodotto più costoso e meno trasparente e di solito viene proposto/collocato da un agente assicurativo: un intermediario certamente meno frequente nella vita quotidiana di alcuni milioni di lavoratori subordinati.
Sarebbe interessante capire se il risparmiatore ha compreso fino in fondo le caratteristiche del prodotto acquistato, se ha letto i documenti, approfondito le differenze, valutato le alternative e fatto gli opportuni confronti. Conoscendo il settore e la conoscenza finanziaria media dei risparmiatori italiani, è lecito nutrire qualche dubbio…
Può essere poi interessante approfondire il mondo dei fondi pensione negoziali, sicuramente il più ricco di indicazioni per chi vuole costruire una “geografia” delle categorie dal punto di vista del welfare aziendale.
Ci viene in soccorso il periodico bollettino statistico del Mefop (un ente che si occupa di varie forme di welfare aziendale, tra cui lo sviluppo dei fondi pensioni) (5).
I dati confermano che nei fondi pensione negoziali sono presenti soprattutto lavoratori dipendenti (93%); più interessante è rilevare la modalità di adesione (42% per via contrattuale, 50% per adesione esplicita, soltanto l’8% per adesione “tacita”). Non si tratta dunque di una scelta puramente “passiva”, soprattutto se pensiamo che in quell’8% possono essere inclusi anche coloro che “lasciano” scattare il meccanismo automatico perché in fondo ne condividono la finalità.
Tra i vari settori emergono differenze molto significative, in termini di percentuali di adesione e di patrimoni accumulati: differenze su cui vale la pena provare a fare delle ipotesi.
Ad esempio salta agli occhi il numero degli aderenti a quello che a prima vista sembra il Fondo più “grosso”: PREVEDI con 1.269.778 aderenti. Si tratta del Fondo in cui sono stati inseriti, per via contrattuale, gli addetti del settore edile, con contributo datoriale piuttosto esiguo (1.65% a fronte dell’1% del lavoratore); data la modalità, non stupisce che la percentuale di adesione sia al 100%.
Tra i due settori industriali storici (chimico e metalmeccanico) le differenze sono ampie. A Fonchim ha aderito il 90% dei chimici, con un patrimonio gestito che supera gli 8 miliardi di euro (173.711 iscritti). A Cometa ha aderito il 47% dei metalmeccanici, che hanno accumulato però oltre 13 miliardi di euro (475.594 iscritti).
Negli altri settori si oscilla tra percentuali estremamente diversificate: i dipendenti postali hanno aderito al 90% al Fondo Poste, così come quelli di Enel (e altre società energetiche) hanno aderito al 100% a Fopen. Invece tra i 3.2 milioni dei lavoratori del commercio, solo l’8,40% ha aderito a Fonte (268.829 iscritti). Spicca il dato dei Quadri e Capi Fiat, un fondo storico appannaggio della gerarchia della “Feroce”: soltanto 12.270 iscritti, ma che si spartiscono un patrimonio di oltre 725 milioni di euro. Quasi 60.000 euro a testa, senza considerare che in tanti sono già usciti ed hanno prelevato tutto, dopo le massicce ondate di tagli, esodi incentivati e licenziamenti di dirigenti.
La vera delusione, per i promoter dei fondi pensione, è il settore pubblico. Complice il fatto che lo Stato ha sempre speso poco per i suoi dipendenti, con percentuali di contribuzione appiattite sull’1%, i fondi pensione nel settore pubblico non sono mai decollati. Lo dimostrano i dati di Perseo Sirio, che dovrebbe raccogliere tra le file della Pubblica Amministrazione (198.400 iscritti, ma una percentuale di adesione del solo 12% e un patrimonio inferiore ai 500 milioni) e ancora di più quelli di Espero, del comparto Scuola (101.095 iscritti, meno dell’8,50% della categoria, 1.3 miliardi di euro dopo 20 anni di vita).
Non stupisce che periodicamente salga alla ribalta qualche nuova proposta (o qualche nuovo contratto) che reintroduce il silenzio-assenso, per incrementare le adesioni “spintanee” al fondo pensione, attingendo al TFR (o al TFS, nel settore pubblico), come accaduto di recente nella scuola.
La preferenza per il TFR mantiene tra i lavoratori la sua solidità, nonostante l’andamento altalenante dei rendimenti e la sfavorevole convenienza fiscale. L’azzeramento dei tassi di interesse e di inflazione per un lungo numero di anni (perlomeno dal 2015 al 2021) aveva penalizzato il rendimento del TFR rispetto al buon andamento dei mercati finanziari e quindi migliori prestazioni dei fondi pensione. Poi è arrivato il 2022, con l’impennata dell’inflazione ed il crollo dei mercati (inclusi il comparto obbligazionario). In quell’anno il TFR ha reso oltre l’8%, mentre i fondi pensioni hanno perso mediamente il 10%. Un bagno di realtà che ha riportato in auge il discorso della “truffa dei fondi pensione”, senza se e senza ma, anche se poi nel 2023 la situazione si è “normalizzata”.
I paladini e i promoter dei fondi invitano ad estendere il confronto su orizzonti temporali più lunghi, dove in effetti i rendimenti tendono a livellarsi su medie più omogenee, con scarsa differenziazione. Per esempio sull’arco di tempo che va dal 2013 al 2023 (10 anni dunque) registriamo: a) un tasso d’inflazione medio annuo dell’1.7%; b) un rendimento del TFR del 2.4%; c) un rendimento medio annuo dei fondi negoziali del 2.4%; d) un rendimento dei fondi pensione aperti del 2.5%; e) un rendimento dei PIP “nuovi” del 2.7%.
Non ci sono dunque argomenti per sostenere in assoluto che “i fondi pensione rendono di più”, semmai si può dire che, a fronte di un rischio maggiore e una più accentuata volatilità, questo risultato si può, talvolta, conseguire scegliendo un profilo di investimento prettamente azionario.
Nemmeno i vantaggi fiscali riservati ai fondi hanno spinto i lavoratori ad abbandonare radicalmente il TFR (spesso e volentieri per reale ignoranza della loro esistenza): la tassazione dei fondi pensione è del resto un vero rompicapo anche per gli specialisti. Mentre è abbastanza diffusa la conoscenza della possibile deduzione fiscale dal reddito (fino a 5164 euro annui), il che consente di risparmiare tasse ad aliquota marginale, sono di meno quelli che conoscono la riduzione di aliquota sui rendimenti annui (20% anziché 26%), l’aliquota applicata in uscita per prestazioni in capitale (dal 15% al 9%), e davvero pochi coloro che conoscono l’esistenza della R.I.T.A. (rendita integrativa temporanea anticipata).
Quest’ultima è stata introdotta dal governo Renzi per consentire agli esodati, privi di lavoro e di pensione, di smobilizzare a rate il fondo pensione, a tassazione agevolata, come forma di reddito transitorio, prima della maturazione dell’età per la pensione di vecchiaia. Hanno finito per usarla tutti i prepensionati, per obiettivi del tutto diversi, come ad esempio il prelevamento di tutto il capitale, pagando meno tasse.
E’ evidente infatti che vale il principio “prendi i soldi e scappa”: sono pochissimi a trasformare il montante in rendita vitalizia integrativa, alla fine della vita lavorativa, e la stragrande maggioranza, se può, ritira il capitale in unica soluzione, oppure tramite RITA.
Quindi possiamo provare a trarre le prime conclusioni della trentennale esperienza dei fondi pensione italiani:
a) c’è una generale diffidenza verso lo strumento ed una scarsa appetibilità rispetto al TFR;
b) chi aderisce al fondo pensione punta a sfruttare tutti i vantaggi fiscali possibili, per rientrare in possesso del capitale appena possibile;
c) chi acquista o aderisce al fondo pensione non ha effettivamente bisogno di una integrazione pensionistica, e comunque non intende usarlo come tale;
d) chi avrebbe davvero bisogno di aprire un fondo pensione, per integrare una futura pensione miserrima, non ha le risorse finanziarie necessarie, perché guadagna troppo poco e in modo troppo discontinuo;
e) i tentativi di rendere vincolante un “risparmio previdenziale forzoso”, per le generazioni del “contributivo”, si scontra con limiti oggettivi irresolubili, tra cui in prima istanza i salari troppo bassi.

Non è dunque questa la soluzione più adatta per porre rimedio al disastro previdenziale che si prepara per le generazioni lavorative che si sono affacciate sul mercato del lavoro a partire dalla fine degli anni ’90 (6). Le previsioni che si estendono oltre il 2040 lasciano intuire un tasso di sostituzione, tra stipendio e pensione, sempre più insostenibile, per i lavoratori dipendenti e ancor più per gli autonomi, che hanno tutti come unica possibilità, per mantenere un tenore di vita adeguato, quella di ritardare il pensionamento fino a dopo i 70 anni.
Un esito poco gradevole, che rende più che mai centrale la battaglia per riconquistare un sistema previdenziale pubblico, basato sul primo pilastro, universale, a ripartizione e finanziato da una mirata tassazione patrimoniale.

Note
1) Decreto Legislativo 21 aprile 1993 n. 124.
2) Decreto Legislativo 5 dicembre 2005 n. 252.
3) Covip, “La Previdenza Complementare, principali dati statistici”, dicembre 2023.
4) Fabi, Analisi e Ricerche (su elaborazione dati Banca d’Italia), 17 febbraio 2024.
5) Mefop, Bollettino Statistico n. 90, dicembre 2023.
6) Mef, Le tendenze di Medio-Lungo Periodo del Sistema Pensionistico e Socio-Sanitario, Rapporto N. 24, 2023.

 

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