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Riot. Sciopero. Riot. Una nuova epoca di rivolte

Da “Collegamenti” n. 5, novembre 2023 un contributo di Cosimo Scarinzi a partire dalla lettura di

“Riot. Sciopero. Riot. Una nuova epoca di rivolte,
di Joshua Clover trad. Lorenzo Mari – Meltemi 3 febbraio 2023”

Note a margine su sciopero e rivolta

Come a volte avviene, la lettura di un testo che appare interessante e impegnativo stimola riflessioni sulle questioni che il libro tratta in direzioni diverse da quanto il testo stesso immediatamente propone.

Di conseguenza quanto segue non è una recensione, ma un contributo sul nesso sciopero-rivolta, preferisco il termine italiano che mi sembra rendere meglio l’ordine di questioni che mi interessa.

Proverò, molto schematicamente, a ricordare una serie di eventi e a proporre alcune considerazioni nel merito.

Genova 1960

siamo di fronte a un evento, o meglio, a una serie di eventi in diverse città che non hanno nessuna diretta connessione con lo sciopero, è una mobilitazione in senso classico politica contro la provocazione che fa l’MSI. indicendo a Genova, città di robuste tradizioni antifasciste, il suo congresso in una fase di avvicinamento fra lo stesso MSI e il governo.

Pure nella mobilitazione appare con un ruolo importante una soggettività politica e sociale per larga parte non organizzata e controllata dai partiti e dai sindacati della sinistra, quelli che furono definiti i ragazzi dalle magliette a strisce; una giovane generazione proletaria che la cultura della sinistra istituzionale considerava spoliticizzata e succube del “consumismo”. La violenza della repressione poliziesca per un verso e la tensione alla rivolta contro l’insopportabilità della propria esistenza determinarono il formarsi di piazze che sfuggirono al controllo, in particolare del PCI, e che videro in difficoltà gli stessi dirigenti della sinistra. Per un verso una rottura generazionale, quasi fisiologica, ma che sconvolge una città in cui il peso del movimento operaio tradizionale, al cui interno vi sono minoranze importanti quali quella anarchica, il cui peso è assolutamente rilevante. Non siamo, insomma, di fronte a una rivolta di lavoratori immigrati o non principalmente di lavoratori immigrati ma di un largo settore del proletariato locale, gli scontri vanno avanti nei carrugi dove la popolazione sostiene la rivolta (tirando vasi sulla testa dei poliziotti, per esempio).

Appena due anni dopo a Torino con i fatti di Piazza Statuto fra il 7 e 9 luglio del 1962, rivolta e sciopero si intrecciano immediatamente. La mobilitazione operaia che si svolge in uno sciopero di tre giorni si rivolge contro la UIL che, sfilandosi dallo sciopero un paio di giorni prima e firmando un accordo separato, diventa il bersaglio della rabbia. Già il 7 luglio centinaia di operai si radunano in Piazza Statuto circondando la sede della UIL e rapidamente con l’arrivo di migliaia di proletari dalle “barriere”, cioè i quartieri periferici di Torino, si determina uno scontro radicale, nonostante i tentativi di mediazione da parte di CGIL, CISL e il PCI. Gli scioperi proseguono fino al 9 luglio, quando la polizia riesce a sgomberare la piazza, e si chiudono con un bilancio di 1215 fermati, 90 arrestati e rinviati a giudizio per direttissima, un centinaio di denunciati a piede libero, varie centinaia di feriti fra poliziotti e manifestanti e con il licenziamento di 88 operai coinvolti nelle proteste. Vale la pena di ricordare che proprio da quegli eventi trae origine il primo caso di “criminalità politica” di questa fase storica, e cioè la Banda Cavallero, che nasce nell’universo di quelli che a Torino erano definiti “cattivelli di barriera”, cresciuti nelle sezioni del PCI.

Colpisce il fatto che i membri della Banda Cavallero al processo che si conclude con la loro condanna intonano “Figli dell’officina”, un classico caso di recupero, nel pieno della modernità della loro esperienza, delle tradizioni radicali del movimento operaio.

Ma lotta operaia e rivolta non è un monopolio di Torino e del nord industriale: nell’agosto dello stesso 1962 uno sciopero degli edili di Bari e dei braccianti di Matera porta scontri durissimi con la polizia per l’ottenimento di aumenti salariali. È importante rilevarlo per porre in discussione il luogo comune secondo cui l’immigrazione meridionale al nord consiste nell’arrivo di masse di lavoratori senza storie di lotta e senza coscienza politico-sindacale.

D’altro canto larga parte di questi stessi lavoratori arriva nell’Italia del nord dopo aver vissuto le migrazioni nelle fabbriche e nelle miniere della Germania, della Svizzera, del Belgio, e già conosce la disciplina e il conflitto industriale.

Avvicinandoci alla fase apicale del conflitto in Italia, è importante ricordare l’eccidio di Avola del 2 dicembre 1968, che portò alla morte di due persone, Giuseppe Scibilia e Angelo Sigona e ad alcuni feriti, nel corso di una mobilitazione contadina contro cui la polizia aprì il fuoco ad altezza uomo. E quello di Battipaglia, del 9 aprile 1969, quando la mobilitazione operaia contro la chiusura di uno zuccherificio e di un tabacchificio portò prima all’occupazione della stazione ferroviaria e poi all’assalto al commissariato a cui la polizia rispose sparando e causando la morte dell’insegnante Teresa Ricciardi e dello studente Carmine Citro e a molti feriti. Si ebbe quindi una vera e propria insurrezione con l’abbandono della città da parte della polizia.

Ancora una volta rivolta e lotta operaia sono in relazione dialettica tra loro.

Ma la rivolta non è un monopolio del Sud: nel profondo Nord, a Valdagno, il 19 aprile 1969 la polizia attacca i picchetti, determinando scontri, in particolare da parte delle donne, che determinano l’arresto di due operai. Nonostante i dirigenti di CGIL CISL e UIL, senza consultarsi con gli operai, concordassero con la polizia il rilascio dei due operai in cambio dello scioglimento della manifestazione, la mobilitazione proseguì coinvolgendo larghi settori della cittadinanza, in particolare degli studenti, che abbatterono la statua di Marzotto padre e attaccarono direttamente i negozi della Marzotto in città. “L’ordine” venne riportato con l’arrivo del famoso battaglione celere di Padova e con l’arresto di 200 manifestanti.

Tornando a Torino, il 3 luglio 1969, in occasione di uno sciopero della Fiat-Mirafiori un corteo operaio a cui si sono uniti gruppi di studenti si scontra con la polizia in corso Traiano, è la famosa “rivolta di Corso Traiano” che vede la popolazione del quartiere sostenere -o in strada o dai balconi- la lotta fino a tarda notte. Vi saranno più di 200 fermati e 29 arresti, un centinaio di agenti feriti, mentre per comprensibili ragioni, non è noto il numero dei feriti nei manifestanti. Ancora una volta sciopero e rivolta urbana.

Ciò che è evidente, e lo sarà ancora di più nell’autunno caldo, è il fatto che il ciclo di scioperi e rivolte sociali sono strettamente intrecciati, basta solo pensare al grande movimento dell’occupazione delle case che si sviluppa in quegli anni; lotta per il salario e migliori condizioni di lavoro e lotta per il reddito nella sua forma più immediata e drammatica sono in strettissima relazione, basta pensare al fatto che larga parte degli occupanti sono lavoratori salariati.

È evidente che si tratta di mobilitazioni che hanno un impatto devastante sullo stesso piano politico, viene messa in discussione la disciplina aziendale e il diritto di proprietà, la struttura del movimento sindacale e le relazioni interpersonali. Riprendendo il vecchio slogan femminista, per un breve periodo “operaio è bello”, nel senso che cambia la percezione di sé e del proprio peso nella società, e che i settori sociali non operai, studenti ma non solo, basta pensare alle prime mobilitazioni dei tecnici e degli impiegati, riconoscono e quasi vivono come una liberazione il proprio essere proletarizzati.

Torno alla domanda che mi sono posto, se sia possibile una periodizzazione riot-sciopero-riot e, soprattutto, in che misura sia utile, ma la risposta a questa domanda può essere rinviata a una recensione puntuale del libro.

È però mio convincimento che quest’ordine di questioni si possa definire meglio cogliendo la complessità delle relazioni sociali. D’altro canto basta pensare al maggio francese, contemporaneamente sciopero generale e insurrezione urbana, ma anche allo straordinario ciclo di lotte della Spagna nella fase terminale del franchismo, quando mobilitazioni operaie assolutamente “europee” fanno i conti con una macchina statale sulla cui violenza repressiva non mi dilungo, e alle lotte operaie nei paesi del socialismo reale.

È, insomma, sin evidente che gli elementi da considerare sono il ciclo economico, la composizione di classe, la struttura politica e la stessa composizione politica della classe e la sua relazione con le culture, le organizzazioni, le esperienze che caratterizzano la classe stessa. Un lavoro sempre necessario e non sempre facile.

 

 

 

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