Dal n. 7 (ottobre 2024) “Collegamenti per l’organizzazione diretta di classe” ha iniziato la pubblicazione di una rubrica di lettere alla redazione. Le riportiamo di seguito.
“Collegamenti contiene sempre contributi interessanti e pure questo numero [6] non fa eccezione.
L’articolo di Cosimo Scarinzi e quello di Federico Giusti, peraltro, offrono molti spunti critici, stimolanti e condivisibili: dall’entrismo nei sindacati confederali al ruolo delle Rsu, ma anche la ritualità degli scioperi “di base” che proclamiamo ad ogni autunno, con infinite liste di pro e contro destinati a rimanere buone intenzioni.
In base alle dinamiche della Rsu in Comune a Livorno (sempre più a maggioranza Cgil), avrei diversi argomenti in più, dalla sostanziale connivenza con l’amministrazione “amica” (ben oltre la decenza) al disimpegno e alla delega che ha incentivato fra i/le dipendenti comunali.
Ai vari problemi da voi evidenziati, io ne aggiungerei uno di fondo, ossia la difficoltà di avvicinare, interessare, coinvolgere, etc. i lavoratori e, in particolare, quelli più giovani.
Qualche episodio minimo. Un compagno/amico di vecchia data (ex-autonomia fiorentina, aderente Confederazione Cobas) che lavora alla Coop, all’ultimo sciopero per la strage operaia in via Mariti, mi raccontava sgomento la difficoltà incontrata a rendere consapevoli i colleghi più giovani dell’iniquità rappresentata dal salario più basso che percepiscono rispetto a lui, con maggiore anzianità, nonostante l’uguale lavoro svolto, ma con diverso contratto. Per loro… era infatti normale.
Così come, i miei colleghi appena assunti ritenevano normale il dover lavorare accettando ogni sopruso da parte dei dirigenti: “in fondo, siamo appena arrivati…”.
Ed aggiungo, sempre parlando della mia esperienza di “comunale” (ormai ex, in quanto pensionato dallo scorso Primo Maggio), come in un decennio sia quasi dimezzato il numero di volantini sindacali necessari per coprire l’ingresso dei colleghi, in conseguenza del numero crescente di quelli che lo rifiutano a priori.
Per questo, mi sembra che ci stia sfuggendo qualcosa di cruciale.
Chiamiamolo mutamento antropologico, culturale, valoriale o sonnambulismo di classe, ma – a differenza, ad esempio, della Francia – mi sembra che siano andati perduti molti “fondamentali” che decenni fa erano scontati anche fra i settori meno politicizzati del mondo del lavoro.
Ed allo stesso tempo, mi sembra che ci stia sfuggendo anche un generale “stato d’animo” che peraltro potrebbe avere pure risvolti importanti se venisse colto con intelligenza un po’ situazionista.
La stragrande maggioranza delle persone – e quindi anche quelle che teoricamente sono classe lavoratrice – vive malamente e non solo per mere ragioni di crescente miseria e sfruttamento. Vive male perché non può vedere un futuro migliore del presente e, allo stesso tempo, si sente impotente, senza alcun investimento di fiducia verso sé stesse, oltre ovviamente che verso partiti, sindacati, movimenti e finanche aggregazioni orizzontali, se non per difendere qualche ricaduta “bio-politica”, beninteso per tornare presto alla passività (la vicenda covid e dintorni è stata esemplare).
E questa non è una questione sovrastrutturale, perché se manca un minimo di “ottimismo” sulla possibilità d’intervenire sulla propria vita e sulla società, manca drammaticamente la spinta al pensiero alternativo e all’agire antagonista; si lotta infatti perché s’intravede una possibilità di cambiamento oppure si lotta per affermare la propria “felice” incompatibilità col dominio.
Invece, questo malessere generale – ma terribilmente individuale – al momento produce solo aggressività senza senso, auto-violenza ed assortito annichilimento.
Mi fermo qua e perdonate la schematicità.
Buon tutto.
Marco Rossi
Ho letto il numero di Collegamenti, devo dire che ho molto apprezzato l’articolo di Stefano Borroni Barale (Cibernetica o Barbarie), un tema quello del “digitale” che ha ed avrà forti conseguenze sul mondo del lavoro in generale, avremmo bisogno di definire meglio una linea di intervento politico su questo tema, siamo in ritardo. Intuisco che nei vostri interventi stiate tendando di analizzare la situazione e le dinamiche che hanno portato alla “crisi” del cosiddetto sindacalismo di base, lo sforzo è encomiabile certamente, ma a mio avviso ancora pesantemente pervaso da una certa forma di volontarismo che ancora non ha fatto i conti con la realtà sociale e politica degli ultimo decenni, sulla ristrutturazione del capitalismo, che pure nei vari interventi viene indicata come la causa mutante dei comportamenti e dell’azione sindacale in senso generale. Io sono stato tra coloro che avevano, a suo tempo, proprio all’inizio degli anni novanta, spinto nei nostri ambienti libertari per fondare un sindacato vero, e quando Tiboni e pezzi della Fim si lanciarono in questa avventura salutai con gioia questi nuovi arrivi, pensavo veramente che si potesse avere un quarto sindacato in Italia caratterizzato da una forte autonomia e da una buona combattività, ma mi sbagliavo, o meglio, a posteriori posso dire che quella strada non era percorribile. Questo per svariate ragioni, buona parte dei quadri sindacali di base venivano dalle aziende a controllo statale, quando con la scusa di tangentopoli tutto venne privatizzato finirono anche quelle esperienze di base. Ricordo che in quegli anni ancora i contratti di lavoro avevano come centro propositivo un quadro generale tra i metalmeccanici, in un certo senso si dava un minimo di linea ai livelli contrattuali. Purtroppo quell’esperienza, mi riferisco alla CUB, deflagrata con la nascita di innumerevoli sindacati di base è la prova che quell’esperimento, almeno a mio avviso, terminò per sempre proprio in quegli anni, con l’uscita di molti anarchici e libertari che ripiegarono in una rassicurante e inutile USI e poi con l’uscita di RDB-USB. Penso che sia il momento di chiederci non tanto che fine ha fatto il cosiddetto sindacalismo di base, quanto qual è oggi il senso e la presenza del sindacato tout court, in tutto il mondo. Nel suo aticolo Cosimo inserisce una nota di Bellofiore che in poche righe indica cosa è accaduto in questi decenni, ma poi sembra scordarsene, la scomposizione sociale dovuta alla finanziarizzazione è stata ben raccontata anche da Gallino, oggi ci troviamo, pensando alla sola Italia, ad avere decine di sigle sindacali, quasi mille contratti nazionali di lavoro sottoscritti con decine di associazioni padronali, una legislazione totalmente squilibrata a sostegno di un capitalismo sempre più violento, e, non dimentichiamolo, con la finanza che interviene direttamente a modellare i livelli di sussistenza dei lavoratori stessi. La mancanza totale della leva fiscale a favore della ridistribuzione di qualche forma di stato sociale di fatto toglie autonomia al sindacato che sempre più dipende da investimenti privati sul sistema industriale e finanziario stesso, i fondi del PNRR sono lì a dimostrare questa dipendenza con evidenza. Che dire, io sono ormai vicino alla pensione e non ho più voglia di fare il delegato sindacale, sono stanco, ho perso una vita a lavorare, e mi sono accorto che i nuovi lavoratori hanno altre esigenze, vivono il rapporto con il sindacato semplicemente come un servizio che gli è dovuto, nulla di più, e della nostra storia e di quella del mondo del lavoro non frega una minchia. Ho smesso da tempo di prendermela con le famigerate burocrazie, grandi o piccole che siano, anzi, le ho trovate indispensabili in questi tempi cupi a tenere in piedi le proprie strutture territoriali, se proprio mi dovessi arrabbiare mi arrabbierei con i lavoratori, ma non ne vale la pena. Indicare il nemico, come ha fatto per decenni il sindacalismo di base, ma anche i compagni della cosiddetta minoranza in CGIL, nelle burocrazie sindacali e nei cosiddetti sindacati istituzionali è stato ed è un errore (che qualcuno si ostina ancora a commettere), mi è sempre sembrata una propaganda alla Beppe Grillo, il potere è corrotto perché non ci sono gli onesti al potere. Non funziona così, non basta una nuova idea di sindacato, bisogna ricostruirlo sui territori. Avevo visto con favore alcuni anni fa inserire nel dibattitto in CGIL la possibilità di ripartire dalle CdL territoriali, togliere spazio alle categorie e alle proprie burocrazie, ma non è accaduto nulla, solo qualche idea messa lì in qualche convegno. Altro dettaglio, io penso di essere troppo vecchio per approcciare a nuove e auspicabili forme di sindacalismo e di ricomposizione della nostra classe, la mia eredità “storica”, ciò che ho fatto e letto, i compagni che ho conosciuto, la mia formazione politica e culturale, tutto ciò mi pare poco adeguato alla fase di oggi, continuerò a stare dalla mia parte come sempre, ma ho l’impressione che mi servano nuovi strumenti ( e penso di non averne ancora a sufficienza). Come tutti spero in una ripresa delle lotte e che abbiano un segno democratico e libertario, di autonomia della nostra classe, ma la vedo dura, ora con la guerra che incombe e che getterà nella miseria qualche milione di lavoratori europei probabilmente nascerà qualcosa per cui valga la pena di lottare… ma non ne sono poi tanto sicuro, oggi non sono in grado di dare indicazioni a nessuno, certo, anch’io auspico un sindacalismo all’altezza dei compiti… ma non saprei da dove iniziare..
Ottima la recensione sull’opuscolo di Pietro Ferrero, anche gli altri pezzi, quello sulla politica e le frizioni internazionali e quello sulla Palestina sono buoni.. il problema non è la nostra storia, il problema è oggi.. l’eterno leniniano “Che fare?”
Un abbraccio
Gino
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