Un articolo di Visconte Grisi da “Collegamenti” n. 5, novembre 2023
C’è un elemento che non viene adeguatamente considerato quando si parla delle motivazioni profonde della guerra in Ucraina, vale a dire l’importanza assunta dalla questione logistica e, in particolare, dal controllo dei porti e delle vie di comunicazione marittima del Mar Nero nel commercio del grano ucraino e delle materie prime russe. Questa motivazione profonda, che sovente viene nascosta dietro le rivendicazioni territoriali sul Donbass di cui non vengono specificate le ragioni, è venuta chiaramente in luce in seguito a un episodio del conflitto risalente ai primi di agosto e di cui hanno parlato le cronache.(1)
In quella occasione i russi hanno attaccato e “distrutto un grande silos granario e altre attrezzature portuali” situate nei pressi di Odessa a pochi chilometri dal territorio della Romania. L’azione mirava naturalmente a ostacolare l’esportazione dei cereali ucraini e, quindi, ad “eliminare il principale concorrente dal mercato” visto che “Russia e Ucraina sono tra i principali produttori agricoli mondiali”. L’Ucraina ha risposto all’attacco colpendo due navi russe nel porto di Novorossijsk sul Mar Nero, a poca distanza da un “gigantesco hub russo di esportazione di materie prime” comprendenti grano, petrolio, carbone e fertilizzanti. Per di più nello stesso terminal marittimo “arriva il petrolio del Kazakistan con cui l’Italia e l’Occidente hanno aumentato i contratti dopo le sanzioni a Mosca”, senza contare che “dietro l’etichetta del petrolio kazako si nasconde la fornitura di greggio russo”.
La guerra quindi può ostacolare, ma non riesce a fermare il commercio internazionale conseguente al formarsi del mercato mondiale. La stessa cosa si può dire per la guerra economica scatenata dagli Stati Uniti contro la Cina iniziata già ai tempi di Obama, portata poi a livelli più alti da Trump attraverso l’imposizione di dazi doganali e il blocco dei prodotti delle principali società tecnologiche cinesi come Huawei, politica poi proseguita da Biden, in particolare sulla questione dei chips o semiconduttori.(2) Per quanto riguarda questi ultimi abbiamo già notato che “recentemente il presidente Biden ha emesso il “Chips and Science Act 2022” il cui scopo è quello di riportare la produzione dei chips (semiconduttori) negli Stati Uniti, produzione che, al momento come già detto, viene effettuata per il 60% in Taiwan. Ma fare gli ingenti investimenti in capitale fisso necessari per la costruzione di impianti industriali per la produzione dei famosi chips nelle attuali condizioni economiche non è per niente facile né immediatamente profittevole. Dal dire al fare c’è di mezzo il mare”.(3)
Intanto la guerra in Ucraina si trascina, pur con il suo carico di morti e di distruzione, trasformandosi in una guerra di posizione, quasi più simile alla prima guerra mondiale che alla seconda. La prospettiva di una tregua appare lontana, nonostante che la situazione economico/sociale dei contendenti sia tutt’altro che brillante.
Le sanzioni imposte alla Russia nei confronti dell’esportazione di materie prime (petrolio, gas, metalli rari) provocano senz’altro un aumento di prezzo di queste materie e la conseguente inflazione e, in questo caso, ciò ha fatto comodo sia alla Russia, paese esportatore, che agli Stati Uniti, che hanno potuto immettere sul mercato il proprio gas più costoso perché prodotto con la tecnologia fracking, molto dannosa per l’ambiente. Ora però sembra che “l’estrazione di petrolio dallo scisto (prodotto dai frammenti di rocce bituminose)” con la tecnica del fracking, che ha reso “gli USA il primo produttore mondiale – 17% del totale globale nel 2020” stia per raggiungere il suo picco fra circa un anno, per poi calare progressivamente “con grave danno per l’economia a stelle e strisce e un ulteriore esacerbarsi delle sue contraddizioni” già molto pesanti.(4)
Le notizie provenienti dalla Russia non sono migliori. La Gazprom, il “colosso russo del gas a controllo statale” ha accusato una diminuzione dell’utile netto ”nel primo semestre del 2023…di 7,8 volte rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso” con una perdita “per circa 7,2 miliardi di rubli (circa 70 milioni di euro)”. Fra i motivi del crollo di Gazprom c’è sicuramente la perdita del mercato europeo che, al momento, non viene compensata dall’aumento delle esportazioni verso la Cina. “Gli investitori di Gazprom stanno guardando con preoccupazione all’andamento del colosso russo del gas”, in quanto, se la crisi dovesse continuare, “l’azienda potrebbe essere costretta a diminuire l’importo dei dividendi per gli azionisti”.(5)
Per quanto riguarda la Cina è evidente un passaggio di fase in cui prevale “il rallentamento dello sviluppo (è in dubbio il raggiungimento del 5% di crescita del PIL)”, a cui si aggiunge un aumento della disoccupazione giovanile e “il calo delle esportazioni del 14,5% su base annua, un calo che ha riguardato tutti i mercati”. Ma l’aspetto più preoccupante riguarda “la sovrapproduzione del settore immobiliare”, ovvero la bolla speculativa immobiliare che ha coinvolto Evergrande, il colosso del settore immobiliare cinese, e Country Garden, il più importante operatore del settore. Il debito di Evergrande viene stimato fra i 312 e i 340 miliardi di euro e rischia di coinvolgere nel disastro anche il sistema bancario, tanto che c’è chi teme una riedizione della crisi dei mutui sub-prime del 2007-2008. Queste vicende “stanno lì a dimostrare che speculazione e sovrapproduzione la fanno da padrone anche in Cina”, contrariamente a quanto comunemente si crede.(6)
Quanto detto sopra costituisce la base materiale di quello che alcune correnti teoriche definiscono “il nuovo disordine mondiale” che, in pratica, consiste nella contrapposizione fra il declinante mondo occidentale, Stati Uniti in primis, e una nuova componente egemonica che molti identificano con i BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) a cui recentemente si sono aggiunti (dal primo gennaio 2024) Argentina, Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia e Iran. Al netto quindi delle nostalgie, presenti in molti gruppi, di un mondo bipolare del passato, è opportuno prendere in considerazione le tematiche di quello che, nel gergo geopolitico, viene definito comunemente “mondo multipolare”.
In un suo recente articolo Michael Roberts mette in dubbio, sulla base di dati economici verificabili, la superiorità dei paesi BRICS rispetto al vecchio G7, affermando che, anche con i nuovi arrivati, “il gruppo dei BRICS rimarrà una forza economica molto più piccola e debole del blocco imperialista del G7. Inoltre i BRICS sono molto diversi per popolazione, PIL pro capite, posizione geografica e composizione del commercio. E le élite al potere in questi Paesi sono spesso ai ferri corti (Cina contro India ad esempio).(7)
Il principale obiettivo che può tenere insieme questi paesi potrebbe essere “quello di cercare di allontanarsi dal dominio economico degli Stati Uniti e in particolare del dollaro”. Ma M. Roberts ritiene che “anche questo obiettivo sarà difficile da raggiungere…anche se c’è stato un relativo declino del dominio economico degli Stati Uniti a livello globale e del dollaro, quest’ultimo rimane la valuta di gran lunga più importante per il commercio, gli investimenti e le riserve nazionali”. Tuttavia, conclude l’autore, “la rivalità internazionale, dal punto di vista politico, economico e militare, è destinata ad accentuarsi in questo decennio” e questo sarebbe dovuto alla fine della “globalizzazione” definita come “i flussi commerciali e finanziari senza ostacoli degli ultimi due decenni del XX secolo”.
Questa definizione, a mio avviso, è piuttosto parziale, in quanto la cosiddetta “globalizzazione” è stata, in prima istanza, una risposta alla crisi di valorizzazione capitalistica degli anni 70 che ha comportato da una parte la delocalizzazione delle attività industriali in paesi con più basso costo del lavoro e, dall’altra, l’esplosione della finanza speculativa, che poi “è intrinsecamente connessa al boom dell’indebitamento, anzi ne è il necessario fondamento”. Ma infine “l’aumento indefinito del debito deve ad un certo punto urtare contro i limiti posti dalla creazione di nuovo reddito…E’ logico che l’inizio della rottura si abbia negli anelli deboli della catena creditizia, come già avvenuto, nel 2007/2008, nel settore dei mutui sub-prime, per l’insufficienza dei redditi salariali su cui i mutui poggiavano (e poggiano)”.(8)
E’ interessante però notare quale è stata la risposta data dalle autorità monetarie e finanziarie a questa crisi e la sua differenza con la risposta data alla grande crisi del ‘29. Ancora Michael Roberts ricorda che “nell’agosto 1929 la Federal Reserve cominciò ad alzare i tassi d’interesse” e, dopo il successivo crollo della borsa rifiutò “di prestare contanti alle banche…e soprattutto rifiutando di mettere in circolazione altro contante” provocando così il fallimento delle banche che portò alla Grande Depressione degli anni 30. “Per il capitalismo, liquidare i fallimenti – anche se comporta un collasso – è un processo necessario. Si tratta di un processo di “distruzione creativa”, così come lo ha descritto l’economista Joseph Schumpeter negli anni Trenta…in vista di un maggiore sfruttamento e accumulo che sia basato su una maggiore redditività per coloro che riescono a sopravvivere alla distruzione”.
Nella crisi del 2007/2008 invece la FED, dopo il fallimento di Lehman Brothers “ha poi riconosciuto che il suo compito era proprio quello di evitare simili crolli” evitando di “diffondere la crisi in tutto il sistema finanziario…Ma questo, dal punto di vista politico, sarebbe disastroso per i governi che si troverebbero a presiedere all’ennesimo collasso bancario, mentre, dal punto di vista economico, tutto ciò scatenerebbe probabilmente un nuovo e ancor più profondo crollo. Pertanto è meglio “stampare più denaro”. Lo stesso atteggiamento è stato mantenuto nel corso del recente fallimento della Silicon Valley Bank. “Ma i salvataggi, e una nuova ondata di iniezioni di liquidità” portano alla conseguenza “che le economie, incapaci di uscire dallo stato di zombie, continueranno ad avere una bassa redditività, dei bassi investimenti e una bassa crescita della produttività. Un’altra lunga depressione”.(9)
Questa lunga depressione non può non coinvolgere anche i Paesi BRICS di cui abbiamo parlato in precedenza, compresa la Cina, alle prese ora con il fallimento di Evergrande. In generale poi i riferimenti alle varie crisi di cui abbiamo parlato ci fanno capire che parlare di crisi capitalistica in maniera generica non ha molto senso. Esistono diversi tipi di crisi e ognuna di esse deve essere esaminata in maniera specifica. Molto schematicamente possiamo però distinguere tre tipi di crisi, ognuna delle quali necessita di una analisi diversa.
1) Crisi cicliche di breve periodo. Di queste crisi è piena la storia del capitalismo: sono dovute a fenomeni congiunturali che ostruiscono, per un tempo più o meno lungo, il processo di circolazione delle merci e del capitale, con la formazione di scorte inattese, la riduzione del grado di utilizzo della capacità produttiva, il rallentamento della circolazione del capitale monetario, la formazione di debiti inesigibili, i fallimenti etc. Un esempio, vicino a noi, di questo tipo di crisi si è verificato durante e dopo la pandemia di Covid 19 con l’interruzione delle catene produttive e, in particolare, delle filiere della logistica. In genere questi tipi di crisi si risolvono in un periodo di tempo limitato e, anzi, creano le condizioni per una successiva ripresa, più o meno sostenuta, dando vita quindi al cosiddetto “rimbalzo”.
2) Crisi cicliche di lungo periodo. In questo tipo di crisi, che si svolgono in cicli che possono durare diversi decenni, il fattore determinante è la famosa caduta tendenziale del saggio di profitto, come viene descritta nella teoria marxiana. Nella teoria di Marx il saggio del profitto diminuisce, a causa del progresso delle forze produttive, gradualmente e tendenzialmente con il procedere dell’accumulazione e degli investimenti in capitale fisso. La diminuzione della massa dei profitti sopravviene solo a un certo punto e conduce, più o meno direttamente, all’arresto degli investimenti e della formazione di capitale. In un quadro a questo livello di astrazione non esistono ancora né la finanza né il credito, il cui ruolo va a complicare molto la faccenda.
Un esempio tipico di queste crisi cicliche si è verificato nel secondo dopoguerra e cioè nei trenta anni gloriosi della golden age capitalistica in cui, alla crescita costante degli investimenti in capitale fisso corrispondeva una progressiva diminuzione del saggio di profitto che, insieme al profit squeeze determinato dall’aumento dei salari reali, ha portato alla crisi degli anni 70. Una situazione simile si era però verificata anche nel periodo di crescita economica degli ultimi decenni dell’800 e della successiva recessione precedente alla prima guerra mondiale.
La risoluzione di questo tipo di crisi, dovuta a sovraccumulazione di capitale, può avvenire solo con la distruzione massiccia di forze produttive o attraverso fallimenti e chiusura di aziende, concentrazione del capitale e conseguente crollo dei salario, in ultima possibilità, attraverso una guerra di dimensioni mondiali, come insegna tutta la vicenda del primo novecento. La crisi degli anni 70 ha avuto però un esito diverso che ha segnato tutto il periodo successivo fino ai nostri giorni. Le difficoltà in cui finiscono molti settori e aziende e la formazione di vasti capitali liquidi inattivi unite al basso livello dei valori azionari provocano un enorme movimento di fusioni e concentrazioni che fa scattare in alto gli indici di borsa e di qui, verso l’inizio degli anni 80, prende il via il grande movimento di spostamento del capitale monetario dalla sfera produttiva a quella speculativa. Una volta create le premesse, un boom speculativo, ovvero la tendenza a trasferire verso la sfera speculativa i capitali monetari generati nella sfera produttiva, è praticamente automatico e non si inverte spontaneamente, essendo tanto un eccellente antagonista della diminuzione del saggio del profitto quanto il tipo di accumulazione e crescita che corrisponde meglio alla struttura della società per azioni.
La fuoriuscita dalla crisi degli anni 70, così come si è determinata, ci conduce direttamente al terzo tipo di crisi capitalistica, che è quella che stiamo vedendo, o subendo, ai nostri giorni.
3) Crisi (o declino storico) del modo di produzione capitalistico. Ogni modo di produzione storicamente esistito nel passato ha avuto uno specifico percorso di declino e scomparsa che si può rintracciare con una precisa analisi economico-sociale. Il modo di produzione capitalistico è entrato, da una cinquantina di anni, in una sua specifica fase di declino caratterizzata dalla tendenza al declino dell’accumulazione di capitale fisso accentuata, in ultima analisi, dalla crescita speculativa che produce una divergenza del tutto inedita fra il saggio del profitto, che aumenta, e il saggio di accumulazione, che diminuisce. Il boom speculativo si origina e si alimenta non dalla finanza in quanto tale, fatto peraltro impossibile, ma dall’attività delle corporation produttive e prende paradossalmente il posto di una crisi generale riequilibrante. Arresta e in piccola parte inverte la tendenza alla diminuzione del saggio del profitto, ma al suo posto introduce la tendenza alla crescita di un indebitamento senza precedenti, diffondendo le operazioni del capitale speculativo praticamente in tutti gli aspetti della vita sociale, principalmente attraverso le privatizzazioni dei servizi pubblici.
Naturalmente il declino storico di lungo periodo del modo di produzione capitalistico può andare incontro a improvvise accelerazioni, come è avvenuto nella grande recessione del 2007/2008. La causa della crisi generale esplosa nel 2007/2008, come già detto, sta nella contraddizione fra l’allargamento dell’indebitamento e l’andamento dei redditi. L’aumento indefinito del debito deve ad un certo punto urtare contro i limiti posti dalla creazione di nuovo reddito ed è logico che la rottura si abbia negli anelli deboli della catena creditizia, come nel caso dei mutui subprime. La crisi si è generalizzata su scala globale in un tempo fulmineo ed è consistita nel fallimento a catena di una quota consistente delle maggiori finanziarie e banche commerciali del pianeta che ha arrestato di fatto il sistema creditizio e finanziario mondiale, fatto che non ha alcun antecedente storico. Poi l’estensione al settore cosiddetto reale è stata immediata. La crisi è stata tamponata soltanto con l’immane quantità di credito concesso dai governi e dalle banche centrali alle banche e alle finanziarie di vario tipo, del tutto fallite. Questo intervento, del tutto necessario, ha da una parte l’effetto di protrarre indefinitamente lo squilibrio, e dall’altra di rimettere in moto l’espansione speculativa. L’indebitamento resta altissimo e l’associata probabilità di nuovi crack altrettanto elevata. In queste condizioni non solo è vieppiù una chimera una crescita economica di una qualche rilevanza, ma men che meno può riprendere nessuna seria fase speculativa, o meglio lo può fare solo riproducendo molto presto condizioni peggiori di quelle esistenti alla fine della fase precedente.(10)
NOTE
1) Paolo Brera – Braccio di ferro sul grano: Mosca bombarda i silos ucraini, ma da Odessa parte il primo cargo attraverso il corridoio protetto – in la Repubblica 16/8/2023.
2) Jeffrey D. Sachs – La guerra economica degli Stati Uniti contro la Cina – in ACrO-Polis 1 settembre 2023 ripreso in Sinistrainrete 6 settembre 2023.
3) V. Grisi – Il fascino perverso della geopolitica – in Umanità Nova n.23/2023. A questo proposito vedi Franco Maloberti – Quale sovranità digitale? Con la crisi energetica difficile persino produrre chip – https://comedonchisciotte.org/quale-sovranità-digitale-con-la-crisi-energetica-difficile-persino-produrre-chip/
4) G.S. – Stati Uniti. Comincia la discesa del petrolio prodotto con il fracking? – in Contropiano.org 13 agosto 2023 ripreso in Sinistrainrete 17 agosto 2023.
5) Armando Spigno – Russia, economia in affanno: crolla Gazprom, il colosso del gas. Gli ultimi dati. – in TUTTONOTIZIE.EU 2 settembre 2023.
6) Piero Favetta – Il tracollo di Evergrande e le crescenti difficoltà del capitalismo cinese – in https://pungolorosso.wordpress.com/2023/09/03.
7) Michael Roberts – BRICS: sempre più grandi, ma sono anche più forti? – in thenextrecession.wordpress.com/2023/08/24/brics-getting-bigger-but-is-it-any-stronger/
8) Paolo Giussani – Il vestito nuovo del capitalismo – in Capitalism is dead – Una raccolta di scritti 1987-2018 – Edizioni Colibrì 2022.
9) Michael Roberts – Azzardo morale o distruzione creativa? – in blackblog francosenia – 17 marzo 2023 ripreso in Sinistrainrete 27 marzo 2023.
10) Nella elaborazione di questi ultimi punti ho seguito alcune considerazioni presenti nel già citato volume di Paolo Giussani – Capitalism is dead – Una raccolta di scritti 1987-2018 – Edizioni Colibrì 2022
Commenti recenti