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Una MAGA sostiene la deregulation di Trump

Da “Collegamenti per l’organizzazione diretta di classe” n. 9/Primavera 2025 riportiamo un articolo di Visconte Grisi che mette in luce le contraddizioni della “deregulation” trumpiana ma anche gli elementi di continuità con le politiche delle amministrazioni precedenti.

Sembra che i recenti sviluppi della politica statunitense successivi alla elezione di Trump abbiano colto impreparati moltissimi commentatori, anche “di sinistra”, mentre, al contrario questi sviluppi erano prevedibili per altri osservatori più attenti allo svolgersi degli eventi.

Tanto per cominciare la richiesta alle nazioni europee di aumento delle spese militari in ambito NATO era già stata fatta ai tempi della prima presidenza Trump, anzi ancora prima nel 2014 quando presidente era Obama. In tempi più recenti gli Stati Uniti, con la presidenza Biden, hanno approfittato dello scoppio della guerra in Ucraina per scaricare sugli “alleati” europei non solo i costi della guerra ma anche quelli delle forniture energetiche. Basta solo ricordare il sabotaggio del gasdotto Nord Stream, che trasportava il gas proveniente dalla Russia alla Germania, costringendo le nazioni europee a importare lo shale gas prodotto, soprattutto negli USA, con la tecnica del fracking che ha costi di produzione più elevati rispetto ai concorrenti , oltre a provocare enormi danni ambientali. Inoltre lo shale gas viene commercializzato in forma liquida, il che comporta ulteriori costi e problemi di logistica rispetto ai gasdotti e richiede la costruzione di rigassificatori. Conseguenza immediata di questo aumento dei costi energetici è stata la crisi del settore dell’automotive: in Germania la Volkswagen ha annunciato la chiusura di tre stabilimenti e una riduzione della capacità produttiva di oltre 700mila veicoli che comporterà il licenziamento di 35mila operai. In Italia Stellantis minaccia il licenziamento di 250 lavoratori alla Mirafiori di Torino invocando naturalmente nuovi ammortizzatori sociali da parte dello stato.

Verrebbe da chiedersi come mai i governi europei abbiano accettato, senza fare una piega, di aderire a una tradizionale politica “atlantista” pur in palese contrasto con i loro interessi economici immediati. Sembra che uno degli obiettivi principali della guerra di Putin in Ucraina fosse quello di creare divisioni all’interno della UE ed, eventualmente, provocare un distacco dall’alleanza atlantica. Questo secondo obiettivo mi sembra difficile da realizzare mentre le divisioni all’interno della UE sono comunque rilevanti e di difficile soluzione, anche se si possono escludere decisamente ritorni a forme di autarchia fuori tempo. E’ necessario però aggiungere che le divisioni all’interno dell’UE possono essere gradite anche agli Stati Uniti, come dimostra la tendenza di Trump a escludere l’Unione Europea dalle trattative di pace e a intrattenere rapporti diretti con i singoli stati nazionali.

Poi è arrivato il piano ribattezzato ReArm Europe che prevede investimenti per 800 miliardi di euro nei prossimi quattro anni lanciato dalla Von der Leyen per far fronte a una ipotetica invasione russa, peraltro piuttosto improbabile, a mio avviso. Il piano prevede un nuovo strumento finanziario Safe che fornirà fino a 150 miliardi di prestiti ai vari stati nazionali per concentrarsi “su alcune capacità strategiche scelte”. In realtà il piano della Von der Leyen non è una novità assoluta, già nel settembre 2024 avevano destato stupore le affermazioni di Draghi, relative alla cosiddetta “Bussola strategica per la difesa europea”, quando parlava di una ripresa economica trainata dalla produzione di armi, cosa che si rivelerà certamente una pura illusione. Si riferisce evidentemente alle ordinazioni che possono arrivare alla media e piccola industria italiana dalla nostrana Leonardo Finmeccanica o, più ancora, dal progettato riarmo tedesco. A questo proposito si parla della nascita del “Polo imperialista europeo”, ma sembra che la produzione di armi sia piuttosto una risposta alla crisi industriale che ha colpito la grande manifattura europea, soprattutto quella tedesca. Infatti si parla di riconvertire la produzione di alcune fabbriche automobilistiche minacciate di chiusura in produzione di carri armati, cosa peraltro non facile. A questo proposito è necessario ribadire “l’impossibilità per il capitale di ovviare alle crisi utilizzando le condizioni di un probabile scontro per giustificare gli investimenti nell’industria bellica come volano per l’economia”.(1) Naturalmente la produzione di armi costituisce una fonte di profitti per le maggiori corporation mondiali del cosiddetto complesso militare-industriale, come la famosissima Lockeed Martin o la Boeing o anche la nostrana Leonardo Finmeccanica, anche se la produzione di armi in generale costituisce un consumo improduttivo di plusvalore per il capitale sociale, tanto più per il fatto che questa produzione viene comprata quasi per intero dallo stato.

A questo proposito però è necessario precisare che la tendenza verso una economia di guerra non dipende dalla pianificazione di un qualsiasi stato nazionale, come afferma Paul Mattick in un articolo del 1937 dove dice: “Durante la guerra, l’economia nazionale non è stata soggetta alle necessità militari, ma le necessità militari, cioè le necessità dei più forti gruppi capitalistici interessati alla guerra, hanno assoggettato a sé tutti gli altri gruppi e hanno imposto loro la loro volontà. Anche qui non è stata dimostrata la possibilità tecnica della pianificazione, poiché questa dittatura economica è rimasta legata al meccanismo di mercato”.(2) Quindi la tendenza verso una economia di guerra sarebbe dovuta al prevalere dei grandi monopoli legati alla produzione bellica, il cosiddetto complesso militare-industriale, nella concorrenza contro gli altri gruppi capitalistici.

Inoltre bisogna notare che gli stati che sostengono con più decisione la necessità del riarmo sono quelli del nord Europa, come la Danimarca o la Svezia, insieme con la Francia, tutte nazioni dove è ancora forte la presenza dello stato nell’economia, al contrario dell’Italia dove prevale il liberalismo selvaggio e che ha un atteggiamento più cauto. Paul Mattick dice in proposito: “Sebbene i ricavi dell’economia di guerra affluiscano nelle mani di pochi individui o gruppi, mentre i costi sono sopportati da tutti i contribuenti, la differenza tra costi e ricavi trova un limite nella capacità del governo di sovvenzionare lo sforzo bellico mediante imposte. Questi costi sono pagati nella speranza di aumentare quei ricavi. Si tratta, molto probabilmente, di compito disperato, ma la probabilità di tali risultati negativi non libera le nazioni capitalistiche dal bisogno incoercibile di operare su scala internazionale.” Conclude Mattick : “Per questa ragione l’economia mista rimane legata alla guerra e alla mobilitazione per la guerra ; invero, essa non è altro che l’economia capitalistica intesa come economia di guerra semi – permanente… Comunque, le conseguenze della guerra sono legate con le forze della produzione. Queste forze rendono ora possibile la distruzione della maggior parte del mondo e della sua popolazione, il che sembra precludere l’utilizzazione della guerra a scopi di accumulazione.”(3)

Secondo questa teoria quindi l’ipotesi più probabile è che la guerra in Ucraina possa costituire l’ennesimo episodio di una condizione di guerra permanente seguita alla seconda guerra mondiale, dalla Corea al Vietnam, alla Jugoslavia, dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Libia alla Siria, un episodio certamente doloroso per le distruzioni e le migliaia di vittime civili, ed emotivamente (e mediaticamente) più sentito in quanto più vicino a noi nel cuore dell’Europa. In effetti gli ultimi avvenimenti seguiti all’elezione di Trump con l’inizio delle trattative fra USA e Russia sembrano indicare che l’incubo della terza guerra mondiale si stia allontanando. Il cosiddetto imperialismo USA non si scontra con l’imperialismo russo ma tende a realizzare una pace con la possibilità di sfruttare le risorse (non solo le terre rare che servono per una infinità di lavorazioni nei diversi settori produttivi, gas e petrolio da rivendere a prezzo maggiorato agli “alleati” europei, le distese agricole sfruttabili dalle corporation agroalimentari ecc.) i cui profitti (spartiti con gli oligarchi ucraini e russi) costituiscono la restituzione del debito contratto con gli USA per i capitali e le armi fornite da Biden (cioè prestiti non regalie) mentre il sostegno degli europei resterà nelle mani degli oligarchi ucraini.

Per quanto riguarda l’elezione di Trump ci si potrebbe chiedere come mai la leadership economica delle grandi corporation transnazionali tende a sostenere alacremente una estrema destra inguardabile. Quali sono i problemi delle corporation relativi alla realizzazione di profitti sempre maggiori? In un articolo dal titolo “Il MAGA di Trump e la deregulation” Michael Roberts sostiene che “Trump considera gli Stati Uniti solo come una grande corporation capitalista di cui è amministratore delegato…e quindi può assumere e licenziare persone a suo piacimento…Ma le istituzioni dello stato sono un ostacolo…Come un buon capitalista, Trump vuole liberare le corporation statunitensi da qualsiasi vincolo nel realizzare profitti”. Per raggiungere questo scopo le misure da prendere sono numerose e svariate: niente più spese inutili per mitigare il riscaldamento globale ed evitare danni all’ambiente, aumentare i costi per le corporation nazionali rivali aumentando i dazi sulle loro esportazioni, aumentare gli investimenti delle imprese statunitensi in settori redditizi come la produzione di combustibili fossili, nell’intelligenza artificiale e nel settore immobiliare (vedi ad esempio il piano per Gaza).

Un altro obiettivo è ridurre le tasse sui profitti delle corporation e le tasse sui super ricchi per cui Trump e il suo “consigliere” Musk hanno imbracciato “una motosega per demolire i dipartimenti governativi, i loro dipendenti e qualsiasi spesa per i servizi pubblici (anche la difesa) per “risparmiare denaro” ovvero tagliare i costi”. Inoltre è necessario abolire i regolamenti “meschini” sulle attività commerciali come: norme sulla sicurezza e condizioni di lavoro nella produzione, leggi anticorruzione, protezione dei consumatori da truffe, controlli sulla speculazione finanziaria e su asset pericolosi come bitcoin e criptovalute. ”La deregulation è la chiave per rendere di nuovo grande l’America (MAGA) e deve essere applicata soprattutto alle società di servizi finanziari e alle banche”. Secondo Roberts però questa “deregulation competitiva” aumenterebbe inevitabilmente il rischio di un crollo finanziario come è stato già dimostrato dalla crisi dei “mutui subprime” nel 2007/2008 e dal fallimento della Silicon Valley Bank nel 2023. Ma certamente “la strategia aziendale di Trump non porterà a una maggiore crescita economica e a migliori standard di vita e servizi pubblici…e per questo, nonostante qualche temporaneo vantaggio di prezzo dovuto ai dazi (con il rischio però di una accelerazione dell’inflazione) è destinata a fallire”.(4)

Una situazione di inflazione più elevata, con relativo calo dei salari e delle condizioni di vita dei lavoratori e con servizi pubblici al collasso, potrebbe portare a seri problemi all’interno degli Stati Uniti, vale a dire a una accentuazione di quella polarizzazione sociale che aveva indotto Loren Goldner a prevedere una guerra civile a bassa intensità, in una intervista rilasciata a Radio Blackout nel novembre 2016, subito dopo la prima elezione di Trump alla Casa Bianca. La tesi di Loren Goldner era che: “Il punto più vulnerabile di Trump è proprio il suo punto forte ai fini del risultato elettorale: la sua pretesa di offrire quei milioni di posti di lavoro nelle industrie e nelle infrastrutture che i suoi sostenitori della classe operaia ( i blue collar) si aspettano”.(5) Nella tradizione della sinistra comunista italiana il termine “polarizzazione sociale” definisce una condizione in cui la politica rivoluzionaria è in grado di fissare praticamente una linea di demarcazione netta fra le classi, il proletariato da una parte, la borghesia dall’altra, ognuna delle due classi tesa a difendere le proprie condizioni che stanno degenerando. Naturalmente la situazione negli Stati Uniti, pur se in movimento, è ancora lontana da questa condizione. La polarizzazione sociale che si verifica non è così univoca, ma è composta da diverse componenti la cui unificazione è ancora tutta da realizzare sul campo.

Parliamo della polarizzazione etnica o razziale che ha conosciuto una estrema radicalizzazione dopo l’uccisione di George Floyd. Il riferimento che qui utilizziamo è la corrente del “black marxism”: nella visione di questa corrente la divisione razziale del proletariato è fondante del capitalismo negli Stati Uniti per cui è necessaria una alleanza rivoluzionaria fra proletariato nero e proletariato bianco, un proletariato multirazziale guidato dal proletariato nero. Quindi la tesi è che la guerra civile deve combinarsi con la rivoluzione sociale.(6) I compagni del collettivo “noi non abbiamo patria” invece parlano di crescente polarizzazione sociale e di classe avendo come riferimento i giovani senza riserve, giovani proletari di tutti i colori, o anche i primi scioperi spontanei degli “essential workers” e degli operai latini dell’agrobusiness e della macellazione delle carni.(7) La crescente polarizzazione sta iniziando, qua e là, a contaminare anche alcuni pezzi della tradizionale classe operaia bianca e garantita, come testimoniato dai recenti scioperi nel settore dell’automotive che hanno coinvolto oltre 13mila operai negli stabilimenti di Ford, Stellantis e General Motors e che si sono conclusi con l’ottenimento di forti aumenti salariali dopo 40 giorni di sciopero a macchia di leopardo e con nuove forme di lotta.

Altri tipi di polarizzazione sono quelle che si instaurano a livello geografico fra le due coste (Atlantico e Pacifico), maggiormente coinvolte nella globalizzazione finanziaria e nei processi di informatizzazione (Silicon Valley) e il midwest industriale e rurale e tendenzialmente isolazionista. Oppure anche la polarizzazione fra grandi centri urbani dove prevalgono le grandi imprese multinazionali e i piccoli centri dove prevale la piccola impresa, sia industriale che agricola.

Del resto Trump si era già scontrato con questi grossi problemi economici e sociali durante la sua prima presidenza dal 2017 al 2021, a dir la verità con scarso successo. Trump aveva convocato alla Casa Bianca i CEO di Ford, Fiat Chrysler (Sergio Marchionne) e di General Motors, promettendo una vasta “deregulation” in cambio del ritorno della produzione in USA, e minacciando, in caso contrario, forti dazi doganali. La risposta dei CEO era stata tiepida o ambigua, mettendo in evidenza la difficoltà delle multinazionali a rientrare in una visione “nazionale” dei loro interessi. Entusiasta, naturalmente, la reazione dell’industria petrolifera. Trump aveva autorizzato subito la costruzione da parte di TransCanada dell’oleodotto KeystoneXL e il completamento della parte finale del Dakota Access che attraversa la terra dei nativi americani e che era stato bloccato da Obama. Aveva promesso di sbloccare anche le trivellazioni in Alaska, anche queste bloccate da Obama negli ultimi giorni della sua presidenza. La “deregulation” in USA prometteva più automobili, più petrolio, più distruzione dell’ambiente, tutta roba da “old economy”.

Si parlava del fenomeno del “reshoring” cioè della tendenza al ritorno di alcuni settori produttivi nei paesi a capitalismo avanzato e in particolare negli USA. Un programma di attrazione di investimenti esteri “Select USA” varato nel 2011 dall’amministrazione Obama che “intende rappresentare il paese come destinazione produttiva senza pari e sostenere la campagna per una riscossa manifatturiera quale pilastro della ripresa economica”. La “soluzione americana” potrebbe richiamare il modello adottato da Marchionne con la Chrysler, “abbassando il costo del lavoro, per sostenere l’adeguamento e l’espansione degli organi produttivi”…Per capirci: gli operai della Chrysler sono passati dai 30$ netti all’ora del pre-crisi ai 15$ del 2013″.(8). Trump non riuscì a riportare in patria l’industria dell’automotive, ma successivamente il centro dell’attenzione si era spostato sulle tecnologie informatiche. Il presidente Biden aveva emesso il “Chips and Science Act 2022” il cui scopo era quello di riportare la produzione dei chips (semiconduttori) negli Stati Uniti, produzione che, al momento, viene effettuata per il 60% in Taiwan. Ma fare gli ingenti investimenti in capitale fisso necessari per la costruzione di impianti industriali per la produzione dei famosi chips nelle attuali condizioni economiche non è per niente facile né immediatamente profittevole.(9) Dal dire al fare c’è di mezzo il mare.

Del resto già nei primi tre mesi della presidenza Trump le contraddizioni insite nel declino del capitalismo americano stanno venendo fuori impietosamente. Tanto per cominciare Trump ha annunciato la fine del Green New Deal revocando l’obbligo delle auto elettriche allo scopo di salvare l’industria automobilistica americana, mantenendo l’impegno con i lavoratori del settore.(10) Questo impegno naturalmente non potrà non entrare in conflitto con Elon Musk, proprietario di Tesla e produttore a livello mondiale di auto elettriche, che invece è stato uno dei maggiori sostenitori di Trump in campagna elettorale nonché capo del Dipartimento per l’efficienza governativa (Doge) nell’amministrazione Trump. Le recenti voci di dissapori insorte fra Trump e Musk, che sembrano indurre quest’ultimo a lasciare presto la sua carica governativa, potrebbero essere dovute all’impegno di cui sopra. E del resto Trump non ha mai rinnegato uno dei suoi principali slogan elettorali che recitava: “drill,baby,drill” (trivellare,ragazzi,trivellare).

Un’altra notizia preoccupante arriva dal settore agroalimentare. L’introduzione delle colture geneticamente modificate (OGM), i cui semi sono prodotti principalmente dalla multinazionale Bayer/Monsanto “ha prodotto una vera e propria rivoluzione nel settore agricolo, grazie alla promessa di un maggiore controllo sui parassiti e un aumento delle rese”. Ora però uno studio condotto da esperti ha dimostrato che “l’uso intensivo del mais OGM ha favorito l’emergere di parassiti più resistenti e aggressivi”. Lo studio condotto dalla Renmin University of China ha analizzato dati provenienti da 10 stati della cosiddetta “Corn Belt”, la regione agricola degli Stati Uniti, principalmente situata nel Midwest, caratterizzata dalla produzione intensiva di mais OGM. “I risultati dello studio indicano che l’uso eccessivo di questi ibridi ha causato perdite economiche per gli agricoltori statunitensi pari a 1,6 miliardi di dollari”. La ricerca sottolinea che percezioni errate sui costi e benefici, pressioni di mercato da parte delle aziende di semi e una scarsa informazione tra gli agricoltori riguardo alle implicazioni a lungo termine dell’uso di ibridi hanno contribuito all’uso scorretto del mais OGM.(11)

Dulcis in fundo in USA il prezzo delle uova nelle ultime settimane è aumentato del 60%: 12 uova sono arrivate a costare 8 dollari. L’aumento del prezzo di questo alimento, componente fondamentale del breakfast americano, è dovuto all’aviaria che ha provocato 20 milioni di decessi tra le galline solo nell’ultimo trimestre dello scorso anno. E allora Trump e soci, dopo gli annunci di dazi all’Europa, lanciano un s.o.s. proprio all’Europa, alla Svezia, alla Danimarca e, in particolare proprio in Italia, al Veneto che ne produce 2 miliardi all’anno. Di fronte all’emergenza uova quindi i dazi sul vino ed i proclami di annessione della Groenlandia passano in cavalleria. “Il mercato è globale – dice l’assessore regionale Carner, della Lega- se ne ricordino in USA quando parlano di dazi”. Il partito più trumpiano d’Italia , grazie alle uova ed ai dazi, in Veneto passa quindi dalla parte dei “globalisti”…(12) Decisamente, alla luce di questi ultimi eventi, il percorso di Trump, il “protezionista” appare irto di ostacoli a dir poco insormontabili.

N O T E

1) “The economics of war and peace”, articolo di P. Mattick pubblicato sulla rivista Dissent nel 1956, citato in Antonio Pagliarone – Paul Mattick. Un operaio teorico del marxismo – Massari editore 2023 – pag. 217.

2) Paul Mattick – The nonsense of planning (L’assurdità della pianificazione) in One Big Union mensile degli IWW – Agosto 1937.

3) Paul Mattick : Marx e Keynes. I limiti dell’economia mista – De Donato 1972.

4) Michael Roberts – Il MAGA di Trump e la deregulation – 5/3/2025 – https://thenextrecession.wordpress

5) Radio Blackout – Verso una guerra civile a bassa intensità? (Loren Goldner su Donald Trump) – Intervista del 10 novembre 2016. Vedi anche la rivista online Insurgent Notes.

6) Shemon e Arturo – Il ritorno di John Brown: i traditori della razza bianca nella sollevazione del 2020 – pungolorosso.wordpress.com – 10 settembre 2020. Shemon e Arturo – Guerra civile e rivoluzione sociale negli Stati Uniti del XXI secolo – pungolorosso.wordpress.com – 26 novembre 2020.

7) Noi non abbiamo patria – Fuck Biden, fuck Trump, burn down american plantations – noinonabbiamopatria.blog – 11 novembre 2020

8) Clash City Workers – Dove sono i nostri. Lavoro, classe e movimenti nell’Italia della crisi – La Casa Usher 2014.

9) ) A questo proposito vedi Franco Maloberti – Quale sovranità digitale? Con la crisi energetica difficile persino produrre chip – https://comedonchisciotte.org/quale-sovranità-digitale-con-la-crisi-energetica-difficile-persino-produrre-chip/

10) https://motori.ilmessaggero.it//economia//usa_trump_annuncia_cambio_di_rotta_su_auto_elettriche_annullero_il_mandato_sulle_auto_green-8605436.html

11) Francesca Biagioli – C’è un problema con il mais OGM negli USA: i parassiti hanno sviluppato resistenza e sono più aggressivi – greenMe – 03/03/2025.

12) https://www.facebook.com/share/p/1ATPNWMdax/

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