Dal n. 7 di “Collegamenti” (autunno 2024) riportiamo questa recensione di Sébastien NAVARRO al libro di Fabian Scheidler, “La fine della megamacchina. Storia di una civiltà sull’orlo del collasso”. Trad: Gaia D’Elia, Castelvecchi, 2024, 396 p., brossura, EAN: 9788868266622
Ricordo di aver sfogliato le pagine con le mani umide, il terrore, l’impossibilità di prendere la vera misura di ciò che stavo leggendo. Quanti anni ho? Forse venti. È tardi per aprirsi alla politica ma vengo da un ambiente in cui mi è stato trasmesso ben poco. La mia “presa di coscienza” avviene quando sono oramai un giovane adulto. Ho ingoiato chilometri di letture, sperando di recuperare un arretrato che non recupererò mai. Ho letto Le vene aperte dell’America Latina di Eduardo Galeano (1940-2015) e non ricordo come questo libro sia finito nelle mie mani. Quello che so è che leggerlo mi toglie il fiato. L’entità dei massacri e dei saccheggi nel continente sudamericano è così vasta da stordirmi. “La storia è un profeta che guarda all’indietro: partendo da ciò che è stato e in opposizione a ciò che è stato, annuncia ciò che accadrà”, scrive Galeano. Pochi paragrafi dopo, l’uruguaiano riassume un lungo continuum storico: “I conquistadores sulle loro caravelle e i tecnocrati in jet, Hernán Cortés e i marines nordamericani, i corregidores del regno e le missioni del Fondo Monetario Internazionale, i mercanti di schiavi con i profitti della General Motors”.
Galeano scriveva queste righe alla fine degli anni Sessanta. Mezzo secolo dopo, il drammaturgo e saggista tedesco Fabian Scheidler scrive nella sua introduzione a La fine della megamacchina: “Il processo di espansione iniziato in Europa cinque secoli fa si è rivelato una storia che, per la maggior parte dell’umanità, è stata immediatamente sinonimo di deportazione, impoverimento, violenza di massa – persino genocidio – e saccheggio di territori. Questa violenza non è finita. Non è una malattia infantile del sistema, ma una sua componente strutturale e duratura. La distruzione delle condizioni di vita di centinaia di milioni di esseri umani a causa del peggioramento del cambiamento climatico ce lo ricorda oggi.
La fine della megamacchina è un compendio da cui si esce rinfrancati e al tempo stesso sbalorditi. Con un vero senso della narrazione, Scheidler è tornato indietro fino all’Età del Ferro per scalfire le radici più antiche della nostra condizione attuale, quella di un homo oeconomicus disposto a tutte le terre bruciate pur di avere la possibilità di rimettere infinitamente una moneta nel jukebox del proprio sterminio. Un’osservazione tanto affascinante quanto terrificante, che non sorprende ma che assume un significato del tutto particolare per chi si prende la briga di scavare nei recessi profondi della psiche umana e della storia per trovare la genesi dei nostri traumi collettivi. La Fine della Megamacchina compatta cinque millenni durante i quali si è avviata e sviluppata una civiltà destinata a diventare egemonica: la stratificazione e l’estensione perpetua di un blocco militare-mercantile essenzialmente spietatamente disegualitario. Contrariamente alla credenza popolare, che suggerisce che la sedentarizzazione neolitica sia stata la causa di tutte le nostre disgrazie, Scheidler insiste sul fatto che la vera rottura preistorica avvenne all’inizio dell’età del rame e del bronzo, intorno al 3000 a.C.. Fino ad allora, sia i cacciatori-raccoglitori nomadi che le comunità agricole più recenti avevano funzionato secondo schemi più o meno egualitari.
Con la scoperta e la padronanza dei metalli e il nuovo potere bellico che essi conferivano, la situazione cambiò bruscamente. Le società dell’epoca si trovarono improvvisamente sotto il controllo di un “complesso metallurgico”, diviso “tra la minoranza che era in grado di ottenere e lavorare il bronzo e gli altri che non vi avevano accesso”.
Qamis tradizionale o giacca e cravatta
Il desiderio di potere, la voglia di sfruttare, gli affetti dominanti si uniscono ai ranghi di una casta in evoluzione capace di mettere al lavoro la plebe e di riscuotere le tasse. In caso di rivolta, gli eserciti mercenari rimettevano in riga i recalcitranti o, più comunemente, li inviavano ad patres. Questo fu il caso delle prime città-stato sumere. Il dominio e il lignaggio del despota si stabilivano in un lungo periodo di tempo: la sua legittimità non proveniva dal basso, ma da divinità create per legittimare nuovi credi sacrificali. Se volete la pace, preparatevi alla guerra, e le masse saranno ben accolte. “Il tempio redistributivo e la dittatura militare si sono fusi per dare origine al primo Stato autoritario”, insiste Scheidler, abile nell’arte della ridondanza perché, così come una zebra è inevitabilmente zebrata, uno Stato è inevitabilmente autoritario. Una libera associazione di esseri umani non crea uno Stato la cui caratteristica principale è “esercitare un potere coercitivo sui propri cittadini”. Questo è anarchicamente chiaro e costituisce l’invariante che si trova sotto il rivestimento di qualsiasi Macronia dirompente.
Ciò che interessa Scheidler è una domanda vecchia come la luna: non perché tanto odio e dominio, ma perché tanta sottomissione. A pagina 21, il saggista va dritto al cuore della questione: “Come mai la maggioranza della popolazione ha permesso che si formassero delle élite che la governasse e che queste riscuotessero parte dei loro guadagni sotto forma di tasse per finanziare eserciti e costruire enormi palazzi? Perché le persone hanno permesso che tali élite regolassero i propri reciproci rapporti e persino che disponessero delle loro vite? Come e perché, in altre parole, le persone hanno imparato a obbedire?”. La domanda è semplice e costituisce la spina dorsale della formidabile lezione che Scheidler sta per impartire. Diciamo “lezione” con un pizzico di provocazione, ma anche perché la genialità de La fine della megamacchina sta nel fatto che questo saggio è ammirabilmente chiaro e pedagogico. In altre parole, mentre lo leggete, vi immaginate di consegnarlo a qualche giovane perso nei meandri della postmodernità, con il consiglio di questo vecchio rincoglionito: “Se vuoi capire il merdaio in cui siamo tutti – e sottolineiamo tutti, per dimostrare la nostra profonda allergia alle epidemie comunitariste – allora leggi questo, e pensaci”.
Che roba è questa ‘megamacchina’?”, vi chiederete. Questa oscura espressione non fa pensare a qualche fermento antisistema dei teorici della cospirazione? Scheidler spiega: utilizza un concetto metaforico preso in prestito dallo storico e pensatore della tecnologia Lewis Mumford (1895-1990). “La ‘macchina’ qui non designa un dispositivo tecnico, ma una forma di organizzazione sociale che sembra funzionare come una macchina”. Con questa importante sottigliezza: noi siamo gli ingranaggi della megamacchina. Divoratrice di vite e di terre, la megamacchina ha continuato nei secoli a razionalizzare ed estendere la sua arte di depredazione e di accumulo a beneficio di pochi. Ma tutte le cose belle devono finire: visto il numero sempre più esiguo di beneficiari umani del suddetto sistema e, soprattutto, i limiti geologici contro cui si è scontrato, Scheidler è l’apostolo di una notizia che, a prima vista, non potrebbe che renderci felici: la megamacchina si sta avvicinando al suo punto di rottura. Se non fosse che, nella sua caduta, rischia di trascinare con sé fasce colossali dei nostri ecosistemi, di tutto ciò che rende la Terra un pianeta ancora vivibile. Un improvviso declino della civiltà, dunque, che non ha nulla a che vedere con quello evocato da qualche cocardiere merdaiolo che vede nella sfera arabo-musulmana la principale forza che minaccia l’equilibrio di routine delle nostre democrazie liberali. Dato che il Capitale ha vinto la scommessa della sua funesta globalizzazione, i tentacoli della megamacchina stanno circondando l’intero pianeta – e non importa quale sia l’aspetto dei suoi aiutanti, se indossano un qamis tradizionale o una giacca e cravatta. Gas di scisto americano, petrolio saudita, fissione atomica franco-russa: la megamacchina è una routine estrattiva che va a tutta velocità e se ne frega delle preziosità diplomatiche. Siamo certi che questi ayatollah dell’eccesso bruceranno fino all’ultima foresta solo per il piacere di avere un panorama aperto sulla loro nullità.
Molto prima dell’Unione Europea e della NATO, l’Impero Romano è stato il primo luogo in cui “le tirannie del mercato e la violenza militare hanno raggiunto il loro primo picco”. Scheidler ci dice che la Repubblica romana dedicava “quasi tre quarti del suo bilancio alle spese militari”. La maggior parte del denaro necessario per pagare i salari delle migliaia di fanti era fornita dalle masse di schiavi che lavoravano nelle miniere. In questo periodo vennero create le prime società pubbliche, un prototipo che anticipava di molto le società per azioni. In altre parole, la gestione delle compagnie minerarie fu delegata a imprenditori privati che, in cambio di un compenso versato all’Impero, sfruttavano la forza lavoro di poveri uomini schiavizzati con la ferocia di un cost killer. “Le aziende pubbliche sono un buon esempio della sinergia tra violenza fisica e potere economico”, scrive Scheidler, prima di spiegare come esse portino i semi delle nostre multinazionali filantropiche: a differenza degli imprenditori individuali limitati dalle loro vite umane, “le aziende pubbliche erano, in linea di principio, immortali e insaziabili. Come le moderne società per azioni, il loro unico scopo era quello di ricavare il massimo profitto monetario possibile da qualsiasi attività economica nel più breve tempo possibile, e di farlo senza alcuna restrizione temporale, indipendentemente dalla durata della vita o dalle esigenze pratiche dei proprietari delle azioni”. L’autore di La Fine della megamacchina avrebbe potuto fermarsi qui, ma no, poiché il suo lavoro consiste nello spiegare che la nostra attuale situazione disastrosa non è affatto il frutto di qualche errore o passo falso economico o politico, ma piuttosto il risultato prevedibile di una logica contabile e bellica che si è diffusa in tutto il mondo, insiste: “In entrambe le epoche [l’Antichità e la nostra], l’espansione della logica di mercato e il dispiegamento del potere statale sono andati di pari passo. Opporre, come ci piace tanto fare, il “libero mercato” alle “burocrazie statali” è quindi puramente illusorio. Sia nell’antichità che nella modernità, la creazione di mercati è stata inestricabilmente legata alle dinamiche belliche degli Stati”.
Date queste premesse, non sorprende che la caduta dell’Impero Romano e l’ingresso nelle “tenebre” del Medioevo abbiano rappresentato un “sollievo” per il popolo. Infatti, lungi dall’essere un paradiso, quest’epoca, sottolinea Scheidler, fu in grado di ridurre “il potere di disposizione dell’uomo sull’uomo – e anche dell’uomo sulla natura”. Le rivolte contadine – alcune delle quali guidate da un “ideale di comunità egualitaria” – e la terribile epidemia di peste nera del XIV secolo scossero improvvisamente l’equilibrio del potere medievale. In un breve capitolo intitolato “La nascita del mostro”, Scheidler analizza in dettaglio questo momento cruciale in cui il vecchio mondo deve gradualmente cedere il passo al “sistema-mondo moderno”. Alla condizione esplicita che le élite mantengano i loro privilegi e la società le sue basi diseguali. In breve, gattopardizzando a fondo, potremmo dire che tutto deve cambiare perché nulla cambi. Citiamo Scheidler a proposito di questo sviluppo decisivo: “Contrariamente a quanto sostiene il mito della modernità, questo sistema non si sviluppò dall’innocente sete di conoscenza e di avventura che animava gli ‘inventori’ e i ‘pionieri’ che si scrollarono di dosso le ristrettezze del Medioevo. È nato dagli sforzi delle élite dell’epoca per soffocare le crescenti aspirazioni egualitarie. Queste non hanno scelto un processo pianificato. Nessuno – né i banchieri, né la Chiesa, né i signori o i principi – era in grado di immaginare il sistema che, dopo tre secoli di lotte sociali, sarebbe stato finalmente messo in atto in Europa prima di lanciarsi trionfalmente alla conquista del mondo. Ciò che accadde, piuttosto, fu che innumerevoli passi compiuti dai vari attori finirono per annodarsi in un sistema che diede vita ai mostri della modernità”.
Sistema e sottosistema
Il resto, purtroppo, è più familiare. Assumendo una prospettiva anarchica, Scheidler rifiuta categoricamente la favola hobbesiana del “contratto sociale” come base dello Stato. Gli Stati moderni non sono sorti per il bene del popolo, né con il suo consenso”, sostiene, “ma come organizzazioni basate sulla violenza fisica”. È un godimento leggere questo acido e lucido resoconto dei fondamenti della scuola moderna “nata dall’incontro tra l’ascetismo cristiano e l’addestramento militare”. Urbanistica, psicologia, economia, tecnologia, religione: il fuoco di Scheidler riempie vertiginosamente un vasto campo interdisciplinare. Le sue intuizioni, spesso formidabili, cristallizzano un caos sociale che improvvisamente perde la sua opacità. Tutto ha allora un senso.
Logico inarrestabile e preoccupato per il nostro futuro, Scheidler ci fornisce questo fatto ovvio che qualsiasi bambino delle elementari dovrebbe essere in grado di capire: “Ogni società umana, compresa la sua economia, è un sottosistema del pianeta Terra. Dipende dal flusso di materiali in questo sistema di ordine superiore, dalla sua capacità di fornire acqua, aria respirabile, cibo, minerali e condizioni meteorologiche relativamente stabili. La Terra può farcela benissimo senza le società e le economie umane, ma queste ultime non possono esistere nemmeno per un attimo senza il sistema vivente ultra-complesso che è la Terra. Se il sistema di ordine superiore collassa, collassa anche il sottosistema. Per questa semplice ragione, l’idea che l’economia e la tecnologia umana possano dominare la natura è aberrante. Un sottosistema non può mai prendere il controllo del sistema di ordine superiore da cui dipende”.
Sette anni dopo aver scritto Le vene aperte dell’America Latina, Galeano scrisse una postfazione inedita per l’edizione in brossura del suo libro. Concludeva con una nota di ottimismo: “(…) nella storia dell’umanità, ogni atto di distruzione trova prima o poi la sua risposta in un atto creativo”. Data l’entità della devastazione a cui stiamo assistendo, potremmo anche dire che c’è un’intera gamma di possibilità a nostra disposizione se vogliamo sperare di torcere una volta per tutte la vecchia ruota della Storia.
La recensione originale francese è in A contretemps, la traduzione in italiano è di G.C. ringraziamo l’autore per averci consentito la riproduzione del testo
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