Berneri, troppo libertario per sfuggire agli stalinisti*
Nel tardo pomeriggio del 5 maggio 1937 al primo piano di Plaza dell’Angel 2, Barcellona, Camillo Berneri dedicava il suo sincero sorriso schivo di sempre ai giornali che leggeva. Aveva la fronte così amplia da parere in altro distratta, per anarchica libertà, dagli affanni del resto del corpo, invece contratto. Si incupì al suono del campanello della porta, e ancor più quando sentì il fruscio di voci volgari. Di poliziotti antitrotskisti, lì per la terza volta, ora per arrestarli, dopo averli accusati d’essere controrivoluzionari. E siccome l’altro libertario ch’era con lui, Francesco Barbieri, compagno di Malatesta e di rivolta, s’offese molto dell’accusa, Berneri lo quietò. Aveva visto le pistole degli altri.
Uscì, e si diede per esercizio di pensare a quant’erano belli i visi delle sue figlie diciottenni, mentre lo portavano via. Il suo corpo venne forato da un colpo sotto l’ascella destra; e la sua mente ordinata e leale svaporò altrove.
Il 29 maggio Il Grido del Popolo , organo del Pci a Parigi, pubblicò un corsivo non firmato, dunque redazionale: «Berneri, uno dei dirigenti del gruppo Amici di Durruti (…), è stato giustiziato nel corso di questa rivolta dalla Rivoluzione democratica, a cui nessun antifascista può negare il diritto di legittima difesa».
Berneri era nato il 20 maggio 1897. La salute cagionevole e la madre mazziniana separata dal padre, segretario comunale a Lodi, gli contorsero l’infanzia. Però, in vita modesta ma elitaria, girò con lei l’Italia delle rivolte: tra cuori generosi e menti spregiudicate e tenaci. Quindicenne era seguace del socialista reggiano Prampolini, e nel 1915 si trovò, ad una riunione antimilitarista contro Cesare Battisti, costernato davanti a due manifestanti morti. Poi Torquato Gobbi gli fu maestro, nelle sere brumose lungo la via Emilia, sotto i portici che risuonavano dei suoi baldi tentativi di resistere: convenne d’essere nato anarchico entusiasta. Anche perciò si sposò minorenne, ad Arezzo, con un’allieva della madre.
Appena in tempo per essere arruolato nella Grande Guerra e continuare la propaganda. Scoperto, venne spedito in prima linea e ferito. Quindi, a guerra finita, venne confinato dalla Regia Questura a Pianosa, anarchico schedato. Ne convenne: la società attuale è detestabile, bisognava prediligere la minoranza, parte eletta. A fianco di Malatesta e Fabbri, che l’amavano come un figlio, fu avversario della tirannia fascista. Ma era troppo libero, persino per gli altri anarchici, che paradossali scrivevano al loro leader storico Malatesta, protestando che certe sue idee erano così inattese e fattori di disgregazione interna. Faticò a studiare perché molto miope, ma nel 1922 si laureò con Gaetano Salvemini e divenne amico di Ernesto Rossi, Gobetti e Rosselli. La generalità degli anarchici era atea, lui non pensava a Dio; i più erano per un’economia comunistica, lui voleva la concorrenza tra lavoro e commercio cooperativi e individuali.
Soprattutto, poi, Berneri negava sì l’autorità di ogni Stato centrale, però gliene piaceva molto uno federale e d’autonomie.
Giudicava degli invasati i comunisti, ottusi dalle pedagogie dispotiche e bigotti di una operaiolatria che derideva: «Non contenti della “anima proletaria”, hanno tirato fuori “la cultura proletaria”».
Leggendo L’Ordine Nuovo , riconobbe le patologie provinciali di Gramsci e se l’immaginava piovuto a Torino dalla nativa Sardegna e preso dagli ingranaggi della metropoli industriale: la letteratura bolscevica russa gli pareva pantografare l’identico processo psichico. Un anarchico così perspicace non poteva piacere ai fascisti, che gli negarono la cattedra e s’abituarono a picchiarlo. Nella primavera del 1926 fuggì quindi in Francia, costretto a umilissimi mestieri per sfamare la moglie e le due bimbette che lo raggiunsero. Berneri riuniva le ingenuità e tutti gli slanci del più puro anarchico con un’intelligenza senza astuzia, e però meditativa. S’accorgeva di quanto fosse malata la ristagnante ossessione settaria, che rovinava la vita degli esuli non meno della miseria. D’altra parte, essendo ingenuo, era predestinato ad esserne la prima vittima. Nel 1928, espulso in Belgio, elogiò l’attentato al principe Umberto di Savoia e, con gli evasi di Lipari di Giustizia e Libertà, fu implicato nel progetto d’attentato al ministro Rocco in visita. Ma si lasciò consegnare proprio dalla spia Menapace un pacco di cheddite e finì altri mesi e mesi in prigione, come gli riaccadde con le riespulsioni in Francia e Germania. La guerra di Spagna lo sorprese nei dubbi, mentre s’era deciso a scrivere «una specie di lirica in prosa delirante». Partecipò ai combattimenti come semplice miliziano, ma i suoi compagni insistettero perché rientrasse a Barcellona: era così miope e sordo; ma soprattutto era più adatto ad altro. Mediò i contrasti tra gli anarchici e Gl; e avversò gli omicidi stalinisti; e quindi Togliatti, che Berneri riconobbe per il professorino pedante, di «perentorietà asinesca», che era. Le gesta che gli costarono la vita. Eppure in Italia abbondano le vie intitolate a Togliatti e agli altri complici dei suoi peccati. Non ce n’è un granché dedicate a Berneri.
«Tempo verrà (…) che i peccati lor giungano al segno, e che l’eterna bontà muovano a sdegno». Ariosto, Orlando Furioso , canto XVII, quinta ottava.
* Reperito da qualche parte su Internet
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