Dal n. 7 di “Collegamenti” (autunno 2024) riportiamo questo articolo di Visconte Grisi
La tendenza verso una economia di guerra si configura a partire dalla pandemia di Covid 19. Qualunque sia stata l’origine del Covid 19, l’aspetto più sconvolgente era il linguaggio da tempo di guerra che era diventato subito virale nei mass media di regime. Espressioni da caserma come “siamo in prima linea sul fronte” o “omaggio agli eroi di guerra” sono state ripetute all’infinito, insieme al ritorno di una retorica patriottarda fuori tempo e agli inni nazionali sui balconi, anche questi durati poco, di fronte al precipitare della situazione sanitaria. Le strade deserte hanno reso l’idea di una situazione di coprifuoco che, fino ad un certo punto, ha finito per oscurare i termini scientifici dell’evoluzione della pandemia e delle possibili soluzioni di prevenzione e terapia. L’inserimento di queste misure si situavano entro una cornice che richiamava la simulazione di una situazione di guerra.
Alcuni fenomeni che si sono verificati in quel periodo possono far ritornare alla mente situazioni tipiche di una economia di guerra. Per esempio la riconversione industriale in alcune fabbriche per la produzione di merci non più reperibili sul mercato nazionale, come le mascherine o i respiratori o i disinfettanti per le mani, ma si tratta, in questo caso, di fenomeni molto limitati, mentre la produzione di armi (quelle vere) è tranquillamente continuata, anche nell’emergenza, come per gli F35 alla Leonardo di Cameri. Niente di paragonabile con l’autarchia dei tempi di guerra naturalmente, caso mai si tratta oggi della interruzione di filiere produttive multinazionali, risultato della divisione internazionale del lavoro capitalistica affermatasi negli ultimi decenni, impropriamente definita “globalizzazione”, e da cui è difficile, o improbabile, ritornare a una economia nazionale auto centrata.
Successivamente è comparso un altro fenomeno tipico dell’ “economia di guerra”: la speculazione sui generi di prima necessità. Il prezzo della farina di grano duro (quello per la pasta) si era raddoppiato, mentre il prezzo dello stesso grano duro era aumentato di un solo euro, passando da 25 a 26 euro al quintale (un 4% scarso). Anche sul mercato delle mascherine sono comparsi fenomeni di speculazione tanto da indurre il governo a introdurre un “calmiere” dei prezzi.
Un altro fenomeno che può richiamare una economia di guerra era la limitazione, certo notevole anche se limitata nel tempo, dei consumi interni, fatta eccezione per il settore alimentare e farmaceutico. Tutto ciò comportava naturalmente un aumento del risparmio privato, che diviene perciò obiettivo privilegiato sia dei fondi di investimento che delle emissioni dei titoli di stato. Certo non siamo ancora ai crediti di guerra obbligatori o alla raccolta di oro per la patria, anche perché il mercato finanziario è diventato così automatico, veloce e ramificato da rendere estremamente difficile una sua regolamentazione da parte di una qualsiasi autorità nazionale.
Tutti questi fenomeni sono descritti in un articolo pubblicato nel libro “Lo spillover del profitto” uscito in quel periodo per le edizioni Colibrì in cui concludevamo che, nonostante i fenomeni prima descritti, la situazione di allora non era quella di un’economia di guerra. Per lo meno non ancora. L’evoluzione verso una economia di guerra era una delle possibilità, anche se era lecito nutrire qualche dubbio su una certa progressione automatica.(1) Subito dopo però lo scoppio della guerra in Ucraina sembrava confermare la tendenza di cui si parlava all’inizio.
Infatti era già partito un altro elemento fondamentale dell’economia di guerra, vale a dire il vistoso aumento di prezzo delle materie prime con la conseguente ripresa dell’inflazione. L’aumento di prezzo interessava naturalmente il petrolio, il gas naturale o il carbone, di cui peraltro esiste oggi nel mondo una grande sovrapproduzione, ma, ancora di più alcune materie prime necessarie alla cosiddetta transizione green e a quella digitale. Parliamo di rame, litio (batterie), silicio (microchip), cobalto (tecnologie digitali), metalli rari ecc. Lo scoppio della guerra in Ucraina ha naturalmente portato all’estremo questi fenomeni, compresa una inflazione galoppante che coinvolge ora anche i generi di prima necessità, con il conseguente taglio di fatto dei salari dei lavoratori, oltre all’aumento stratosferico delle bollette energetiche. Bisogna notare però che questi fenomeni sono solo in parte dovuti alla guerra in Ucraina e alle sanzioni, mentre la parte più consistente degli aumenti delle materie prime è dovuta alle speculazioni finanziarie in corso alla borsa di Amsterdam e ai conseguenti sovrapprofitti delle grandi multinazionali dell’energia, come la nostrana ENI.
L’evoluzione verso una economia di guerra si presenta da subito come fortemente intrecciata con l’andamento della questione energetica. Relazioni internazionali ed energia sono fattori che si condizionano a vicenda: l’energia da componente economica si trasforma inevitabilmente in geopolitica modificando gli equilibri globali e nei “venti di guerra” di queste settimane il ruolo centrale spetta al gas. Parliamo qui del gas liquido americano, quasi imposto da Biden ai dubbiosi alleati europei, anche se costa di più, ha un processo di estrazione più inquinante, deve essere trasportato via mare e necessita della costruzione di rigassificatori.
La spesa militare è stata portata nei paesi europei al 2% del PIL, come già richiesto da Trump nell’ambito del finanziamento della NATO. Naturalmente questo porterà a tagli alla spesa pubblica per il welfare (pensioni, sanità, istruzione ecc.), che sono comunque salario indiretto dei lavoratori. La produzione di armi, di più o meno alto livello tecnologico, continuerà comunque a crescere a dismisura. Il complesso militare-industriale non rinuncerà facilmente a una sua particolare “riproduzione allargata”, anche perché al suo interno si svolge il grosso della ricerca scientifica e tecnologica , con le sue crescenti propaggini nelle università private e pubbliche.
Tuttavia la tendenza verso una “economia di guerra”, di cui si parlava all’inizio, va messa al confronto con i dati reali, per non incorrere in errori di prospettiva. Il primo indice che viene in mente è, naturalmente, il livello delle spese militari nei vari paesi coinvolti. Ora le spese militari USA nel 2023 sono state di poco superiori al 3% del PIL (3,4%), mentre in Russia nel nuovo millennio possiamo rilevare una media del 3% del PIL nonostante il picco del 5,90% nel 2023 in occasione della guerra a sostegno delle repubbliche del Donbass, e in Europa la spesa militare è stata portata, o sta per essere portata, al 2% del PIL, come già richiesto da Trump nell’ambito del finanziamento della NATO (Germania 1,5%, Francia 2,1%, Italia 1,6%)(2). Dai dati risulta che le spese militari sono sì in aumento, ma ancora ben lontane da quelle tipiche di una economia di guerra, come, ad esempio in USA, rispetto al 40% durante la II guerra mondiale e anche rispetto ai picchi durante la guerra di Corea (15%) e la guerra del Vietnam (10%).
Ma veniamo ora alla guerra in corso in Ucraina. Dopo il fallimento dell’iniziale tentativo di blitzkrieg da parte russa, la guerra si è trasformata in una guerra di posizione, quasi più simile alla prima guerra mondiale che alla seconda. Da ambedue le parti si registra una carenza sia di soldati che di munizioni e mezzi militari e di logistica, il che testimonia una difficoltà nella riconversione industriale ai fini bellici, mentre l’oggetto della contesa è sempre più territoriale. La prospettiva si configura come una nuova versione della guerra permanente.
Lo strumento principale messo in campo dal governo degli Stati Uniti contro la Russia sono le sanzioni economiche verso i paesi “canaglia”. Ora, a parte il fatto che le sanzioni economiche non hanno mai ucciso nessuno, neanche la piccola Cuba, tanto meno il ben più coriaceo Iran, le conseguenze delle sanzioni sono molto complesse e, a volte, molto contraddittorie.
Le sanzioni imposte nei confronti dell’esportazione di materie prime (petrolio, gas, metalli rari) provocano senz’altro un aumento di prezzo di queste materie e la conseguente inflazione e, in questo caso, ciò ha fatto comodo sia alla Russia, paese esportatore, che agli Stati Uniti, che hanno potuto immettere sul mercato il proprio gas più costoso perché prodotto con la tecnologia fracking, molto dannosa per l’ambiente. Inoltre nella situazione attuale del capitalismo finanziario mondializzato, in cui le “economie nazionali” hanno perso molte delle loro caratteristiche, le sanzioni sono facilmente aggirabili tramite la creazione di filiali, società ombra, scatole cinesi, matrioske russe e quant’altro.
Sta di fatto che, secondo i dati della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale (FMI) il PIL in Russia nel 2023 è aumentato del 3,6%, e dovrebbe crescere del 3,2% quest’anno. “L’attività economica in Russia è stata influenzata da un aumento deciso di attività legate all’apparato militare”, ma anche dalla crescita del commercio (+6,8%), del settore finanziario (+8,7%), edile (+6,6%). Non solo l’economia di guerra ha contribuito al buon andamento dello sviluppo della Russia, ma anche i generosi contributi pubblici distribuiti dallo Stato a soldati e dipendenti. In seguito a questi avvenimenti il reddito pro-capite è salito nel 2023 a 14.250 dollari, comunque inferiore al livello del 2013, pari a 15.160 dollari, anche se, in termini di potere di acquisto il reddito attuale è superiore a quello del 2013 (39.221 dollari contro 36.631 in termini reali). Sulla base di questi dati la Banca Mondiale ha recentemente inserito la Russia nei Paesi ad alto reddito, categoria che si raggiunge quando il reddito pro-capite è pari o superiore a 13.485 dollari. Rimane comunque sorprendente, in negativo, che la Russia si trovi al 72esimo posto della classifica globale (al 53esimo di quella tarata con la parità di potere di acquisto; Italia 34.776,42 USD, Germania 48.717,99 USD, Francia 40.886,25 USD, Grecia 20.867,27 USD nel 2022).(3)
I dati suesposti vanno comunque considerati con attenzione e devono suscitare alcune riflessioni. Anzitutto è necessario ribadire “l’impossibilità per il capitale di ovviare alle crisi utilizzando le condizioni di un probabile scontro per giustificare gli investimenti nell’industria bellica come volano per l’economia”.(4) Naturalmente questa guerra, come le altre precedenti, costituisce una fonte di profitti per le maggiori corporation mondiali che producono armi, il cosiddetto complesso militare-industriale, come la famosissima Lockeed Martin o la Boeing o anche la nostrana Leonardo Finmeccanica, come del resto hanno fatto le Big Pharma durante la pandemia. Ma i droni e i missili, una volta fabbricati devono essere impiegati per poterli poi di nuovo fabbricare, qualche capitalista deve realizzare i suoi profitti, anche se la produzione di armi in generale costituisce un consumo improduttivo di plusvalore per il capitale sociale, tanto più per il fatto che questa produzione viene comprata quasi per intero dallo stato. A questo proposito destano quindi stupore le affermazioni di Draghi, relative alla cosiddetta “Bussola strategica per la difesa europea”, quando parla di una ripresa economica trainata dalla produzione di armi, cosa che si rivelerà certamente una pura illusione. Si riferisce evidentemente alle ordinazioni che possono arrivare alla media e piccola industria italiana dalla nostrana Leonardo Finmeccanica o, più ancora, dal progettato riarmo tedesco. A questo proposito si parla della nascita del “Polo imperialista europeo”, mentre all’orizzonte si profila un nuovo PNRR europeo appositamente creato per supportare questa politica di riarmo. Ma siamo comunque lontani dalla politica di riarmo praticata, ad esempio, dalla Germania nazionalsocialista di cui si parla in un libro molto documentato (vedi nota 7).
Infatti quando parliamo di economia di guerra, altrimenti detta anche keynesismo di guerra, ci riferiamo a una situazione in cui quasi tutta la produzione è comprata dallo stato e cioè a “un’epoca completamente priva di accumulazione in capitale fisso, resa del tutto impossibile dalla riconversione produttiva a scopo bellico ossia dal fatto che i mezzi di produzione e la manodopera che precedentemente producevano impianti, macchinari, strutture, strumentazioni, etc. venivano ora impiegati per la produzione di beni di consumo non riproduttivo (le armi e l’apparato bellico in generale).” Come conseguenza di ciò si ha una riduzione al minimo dei consumi privati di massa e “una formazione di riserve liquide inutilizzate… neutralizzata con risparmi forzosi ed aumenti di imposte destinate all’immediato impiego nel finanziamento della produzione militare, destinazione nella quale si aggiungono all’immane incremento della spesa pubblica deficitaria.”(5) L’espressione “economia di guerra”, che abbiamo più volte usato fin dai tempi della pandemia, va intesa tuttavia in senso relativo in quanto la riconversione della produzione verso i settori cruciali in tempo di guerra, produzione di armi ecc., è solo parziale, anche se in aumento, ma ben lontana dai livelli del “keynesismo di guerra” degli anni 30/40.
Il fatto è che la tendenza verso una economia di guerra non dipende dalla pianificazione di un qualsiasi stato nazionale, come afferma Paul Mattick in un articolo del 1937 dove dice: “Durante la guerra, l’economia nazionale non è stata soggetta alle necessità militari, ma le necessità militari, cioè le necessità dei più forti gruppi capitalistici interessati alla guerra, hanno assoggettato a sé tutti gli altri gruppi e hanno imposto loro la loro volontà. Anche qui non è stata dimostrata la possibilità tecnica della pianificazione, poiché questa dittatura economica è rimasta legata al meccanismo di mercato”.(6) Quindi la tendenza verso una economia di guerra sarebbe dovuta al prevalere dei grandi monopoli legati alla produzione bellica, il cosiddetto complesso militare-industriale, nella concorrenza contro gli altri gruppi capitalistici. Ciò è ben documentato dalla politica economica del regime nazionalsocialista negli anni 30 in Germania, che non procedette ad alcuna nazionalizzazione, anzi intraprese una politica di prelievo fiscale e di trasferimento della proprietà statale e dei servizi pubblici al settore privato per avere a disposizione le risorse necessarie per il finanziamento delle spese militari, cioè per acquistare i prodotti dei grandi monopoli citati sopra.(7) Ai nostri giorni un esempio più coerente di economia di guerra potrebbe essere riscontrato in Israele, che rappresenta comunque, al momento, una eccezione anche all’interno del mondo occidentale, anche se da molti viene considerato un esempio da seguire.
Dobbiamo però anche mettere in rilievo le differenze fra la situazione attuale e quella degli anni 30. Il processo di concentrazione globale capitalistico e la conseguente formazione dei grandi monopoli si è esteso ad altri settori produttivi al di fuori di quelli tradizionali (petrolio, carbone, acciaio). Tanto per fare un esempio il settore agro-alimentare è in mano a tre colossi multinazionali: Dow-Dupont, ChemChina-Syngenta e Bayer-Monsanto che controllano il 63/69% del mercato e il 75% del business dei pesticidi e diserbanti. La fusione Bayer-Monsanto è un esempio di come il capitalismo riesca a mettere insieme il diavolo e l’acqua santa. La Bayer è da sempre un colosso della chimica che, oltre a medicinali, produce pesticidi e diserbanti. La Monsanto è una società di biotecnologia che produce semi transgenici e Ogm, che dovrebbero essere resistenti agli effetti degli erbicidi, come il glifosato (sospetto cancerogeno). A livello più generale “la crisi finanziaria del 2007/08 ha influenzato grandemente il processo di concentrazione globale: allorché la crisi si era intensificata furono numerose le opportunità per acquisire asset relativamente a buon mercato. Nel 2007/08 ci sono state 169 tra fusioni e acquisizioni all’estero per un valore pari a oltre 3 miliardi di dollari e delle società coinvolte solo otto erano con sede in paesi a reddito basso o medio basso”.(8)
Inoltre non possiamo in questa sede non parlare delle più recenti applicazioni dell’intelligenza artificiale (IA) in campo militare. Lo sviluppo della tecnologia informatica è andato di pari passo con lo sviluppo dei sistemi d’arma, a partire dalla Seconda Guerra Mondiale e poi, dagli anni 70, con la tecnologia dei semiconduttori. Lo stesso è avvenuto per l’IA. Le principali aree di applicazione in campo militare sono quattro: logistica, ricognizione, cyberspazio e guerra materiale. L’IA viene utilizzata anche per le analisi geopolitiche e strategiche, per l’individuazione precoce dei movimenti nemici e per lo spionaggio. L’IA è destinata a migliorare i sistemi d’arma esistenti e a controllare nuove armi a guida automatica (droni ecc.). L’uso più spettacolare al momento è quello dei sistemi d’arma autonomi, cioè armi che agiscono in modo indipendente distruggendo un bersaglio una volta che questo è stato accettato. Attirate da masse di denaro statale e dalla prospettiva di nuovi profitti, le start-up tecnologiche stanno lavorando a nuove armi tra il complesso militare-industriale consolidato, la guerra in Ucraina, la guerra a Gaza, destinate a fornire un vantaggio (bellico) decisivo sul campo di battaglia utilizzando l’IA. Si parla già di sistemi d’arma testati in Ucraina o a Gaza.(9)
Tuttavia sembra, come sostiene Paul Mattick in un suo articolo del 1940, che anche la guerra abbia perso la sua capacità di risoluzione della crisi capitalistica. Dice Mattick: “Nell’andamento ciclico del modo di produzione capitalistico una rapida accumulazione di capitale porta di conseguenza alla depressione e alla crisi, mentre il meccanismo stesso di risoluzione della crisi porta a una nuova fase di accumulazione e sviluppo. In maniera direttamente conseguente un periodo di pace capitalistica porta alla guerra, e la guerra riapre a un nuovo periodo di pace. Ma cosa succede se la depressione economica diviene permanente? Anche la guerra seguirà lo stesso andamento e quindi la guerra permanente è figlia della depressione economica permanente.” Mattick porta poi alle estreme conseguenze la sua analisi quando afferma: “Oggigiorno, si tratta solo di vedere se, nella misura in cui la depressione non sembra più poter ricostituire le basi di una nuova prosperità, la guerra stessa non abbia perduto la sua funzione classica di distruzione-ricostruzione indispensabile per innescare un processo di rapida accumulazione capitalistica e di pacifica prosperità postbellica”.(10)
Naturalmente il ragionamento di Mattick poggia su una analisi classica della guerra intesa come risoluzione della crisi capitalistica, come ben dimostrato dalle due guerre mondiali del Novecento. Il meccanismo di risoluzione della crisi attraverso la guerra si basa schematicamente su due effetti esplosivi dello scontro bellico: 1) una distruzione ingente di forze produttive, quindi di capitale sovraccumulato che aveva dato origine alla crisi, e di forza lavoro in eccesso; 2) l’emergere nel conflitto di uno stato/nazione (o imperialismo) egemone nella ricostruzione postbellica e nella nuova fase di accumulazione capitalistica. Questa ultima affermazione non va intesa però in un senso puramente militare. Infatti in proposito Mattick aggiunge: “Analogamente, la guerra che sarebbe necessaria alla riorganizzazione richiesta dal capitalismo per continuare ad esistere, può pretendere energie che il capitalismo non è più in grado di fornire”. Mattick non parla quindi di stato o nazione o imperialismo, ma del capitalismo nel suo complesso, se abbia o no la forza di riavviare un nuovo ciclo di rapida accumulazione.
Inoltre dobbiamo ricordare che da più di quattro anni noi ci troviamo in uno stato d’emergenza che da praticamente mano libera al governo di legiferare attraverso decreti legge, uno stato d’emergenza giustificato all’inizio con motivi sanitari molto discutibili, e poi prorogato a causa della guerra. A questo punto risulta sempre più difficile distinguere fra un regime definito come democratico e uno bollato come autocratico. Già all’inizio della pandemia avevamo previsto che si sarebbero imposte forme di governo autoritarie e decisioniste e sarebbe aumentata la militarizzazione del territorio e della società. A questo proposito vogliamo ricordare che nell’aprile 2003 la NATO ha pubblicato un rapporto di 140 pagine denominato “Urban Operations in the Year 2020” (UO 2020). Nel rapporto si prevedeva, entro l’anno 2020, una crescita delle tensioni economico-sociali, alle quali si potrà far fronte – secondo il rapporto – solo con una presenza militare massiccia, spesso su periodi di tempo prolungati. Nell’UO 2020 si consiglia di iniziare gradualmente ad utilizzare l’esercito in funzione di ordine pubblico all’avvicinarsi della crisi mondiale ipotizzata per il 2020.(11) Ebbene siamo arrivati al 2024 e gli scenari ipotizzati nel rapporto NATO si rivelano molto attuali e quindi la raccomandazione contenuta nell’ultima parte “sull’esercito in funzione di ordine pubblico”, già operante in Italia da diversi anni, ha subito una accelerazione a partire dall’emergenza coronavirus, segnando una ulteriore militarizzazione del territorio.
A questo proposito risultano molto importanti le lotte antimilitariste messe in atto nel corso del movimento contro il massacro in atto in Palestina, come, ad esempio, il blocco nei porti di navi contenenti carichi di armi diretti in Israele, la contestazione e i presidi di fronte alle aziende produttrici di armi come la Leonardo di Cameri, la Fiocchi di Lecco o la Cabi Cattaneo di Milano, o le occupazioni di molte università con la richiesta di interrompere ogni collaborazione con le università israeliane implicate nella ricerca in ambito militare.
N O T E
1) Lo spillover del profitto. Capitalismo, guerre ed epidemie – a cura di Calusca City Lights – Edizioni Colibrì 2020 – L’economia di guerra al tempo del coronavirus.
2) I dati sono tratti dal Military Expenditure Database del SIPRI (Stockolm International Peace Research Institute).
3) Vedi https://www.adnkronos.com/internazionale/esteri/russia-stipendi-aumentano-i-dati-della-banca-mondiale_7N1Sr7e01GSZgdtQGx6eAq vedi anche https://www.lindipendente.online/2024/07/05/dopo-30-mesi-di-sanzioni-la-russia-e-entrata-nella-classifica-dei-paesi-ad-alto-reddito/
4) “The economics of war and peace”, articolo di P. Mattick pubblicato sulla rivista Dissent nel 1956, citato in Antonio Pagliarone – Paul Mattick. Un operaio teorico del marxismo – Massari editore 2023 – pag. 217.
5) Paolo Giussani – Capitalism is dead – Una raccolta di scritti 1987-2018 – I limiti dell’economia mista e l’accumulazione di capitale dei giorni nostri – pagg. 57/58 – Edizioni Colibrì – Dicembre 2022.
6) Paul Mattick – The nonsense of planning (L’assurdità della pianificazione) in One Big Union mensile degli IWW – Agosto 1937.
7) Larry Liu, Otto Nathan, Peter Robinett, Ulrich Herbert, Mark Harrison – La politica economica del nazionalsocialismo – Asterios Editore – Settembre 2018.
8) P. Nolan e J. Zhang – “La concorrenza globale dopo la crisi finanziaria” in Countdown 2 studi sulla crisi – Colibrì Edizioni – Marzo 2016.
9) Il rapporto fra IA e guerra è stato uno degli argomenti oggetto di discussione in un seminario organizzato dai compagni della rivista Wildcat nel maggio 2024. Le osservazioni presenti in questo articolo sono tratte dal materiale presentato al seminario (semi_letter_3 Forze produttive-IA-Guerra).
10) Paul Mattick – “La guerra è permanente”- http://www.leftcom.org/it/articles/1940-01-01/la-guerra-è-permanente. Vedi anche un mio articolo con lo stesso titolo in Umanità Nova n. 29 del 28/10/2018.
11) Il riferimento è al documento della NATO dal titolo “Urban Operations in the Year 2020” in cui si prevede che le guerre future saranno all’interno delle città, il che ovviamente prelude alla militarizzazione totale del territorio.
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