dal n. 7 (autunno 2024) di “Collegamenti” appena pubblicato riportiamo queste riflessioni di Amilcare Polesano sul ruolo dei sindacati e sulla loro tendenza a perdere di vista gli interessi di classe e una corretta prospettiva internazionalista.
La storia degli ultimi decenni è stata caratterizzata dal declino della capacità dei lavoratori di unirsi e di lottare per i propri interessi economici. Questa situazione è il risultato di un processo le cui premesse vanno fatte risalire assai addietro nella storia del secolo scorso, anche se lo sbocco di una pressoché totale eclissi del movimento operaio è diventato evidente soltanto di recente.
Questo progressivo arretramento della classe lavoratrice nel suo complesso porta con sé conseguenze politiche rilevanti e vistose. I lavoratori non sanno più riconoscersi nei partiti della sinistra istituzionale, la quale ha perduto da tempo ogni velleità “riformista” per caratterizzarsi come area liberale dello schieramento politico borghese.
D’altronde sarebbe difficile per chi deve fare i conti con un salario di sussistenza, con la crescente precarietà del posto di lavoro, con l’allungamento della vita lavorativa e, infine, con il degradarsi dello stato sociale, cercare un riferimento politico in quei partiti così sensibili ai richiami delle compatibilità del sistema capitalistico in tempi di crisi economica cronica.
uesti sono diventati i più zelanti esecutori di politiche di austerità; il caso del Jobs Act da questo punto di vista è paradigmatico: l’adozione di tale legge di “riforma” del diritto del lavoro, con tutte le conseguenze negative che essa avrebbe comportato per i lavoratori italiani, non poteva essere imposta da un governo di destra con la possibile conseguenza di innescare un’ampia protesta di massa. Una legge così contraria agli interessi dei lavoratori doveva essere il frutto dell’azione di un governo “di sinistra” il quale in tal modo ribadiva il senso di responsabilità dei partiti della maggioranza.
La politica, si sa, odia il vuoto più di quanto possa farlo una visione del mondo di impronta aristotelica. Se il proletariato, cioè la classe subalterna per eccellenza della società, si ritira dal proscenio della lotta politica, non per questo cessano i conflitti sociali o viene del tutto assorbito il malcontento. Anzi, in una fase storica di sostanziale ristagno dell’economia, il malessere dei lavoratori e dei ceti medi condannati all’impoverimento, trova spesso modo di esprimersi nelle forme di una critica demagogica degli assetti politici di cui in genere non si sanno riconoscere le radici sociali ed economiche.
I movimenti che ne scaturiscono sono spesso in bilico fra il rifiuto della democrazia parlamentare e la velleità di riproporla sotto mutate forme, magari in conseguenza di un processo di moralizzazione della vita pubblica che ponga fine alla corruzione dilagante e veda imporsi finalmente il “partito degli onesti” e il governo dei buoni e perfetti amministratori della cosa pubblica.
L’affermazione dei populismi e delle destre estreme incarna lo spirito del tempo di un contesto internazionale segnato dalla crescente concorrenza capitalistica in tempi di crisi e di saturazione dei mercati, in cui la contesa fra potenze imperialistiche grandi e piccole per accaparrarsi fette di mercato, porzioni di rendita e sovrapprofitti si fa più forte.
Se il proletariato non sa più vedere la possibilità di una diversa organizzazione sociale ecco allora che resta passivo o addirittura si accoda alle mezze classi che si rifugiano sotto l’ala protettiva dello Stato dispensatore – soltanto virtuale – di benessere. Quest’ultimo viene rappresentato come il bastione dell’estrema ridotta militare della nazione nella difesa del suo territorio e dei suoi cittadini, dalla brama devastatrice delle merci e dei capitali stranieri, resi sempre più impetuosi da una crisi che nelle menti più deprivate di senso critico, si interpreta vieppiù come il portato di un complotto delle élite finanziarie definite come “cosmopolite” o anche “apolidi”.
Inutile dire che in tale visione rudimentale e pacchiana, il fenomeno migratorio descritto spesso con l’odiosa e mistificante espressione di “tratta degli esseri umani”, viene visto come un altro strumento delle lobby della finanza internazionale. Ecco dunque che in questa costruzione ideologica lo Stato nazionale viene visto come la migliore difesa delle condizioni di vita della popolazione e dunque anche delle masse lavoratrici.
I deliri a sfondo paranoico sfociano spesso nell’invocazione di un intervento salvifico che discenda dall’alto a placare un angoscioso senso di minaccia esistenziale. Se il fenomeno lo si guarda in senso sociale approda alla psicologia delle masse. Ora non è il caso di abbozzare una sorta di diagnosi clinica della condizione psichica dei ceti medi o addirittura di una parte del proletariato. Resta il fatto che a giudicare dai risultati si può dire che attualmente lo Stato e la nazione diventano gli elementi di raccordo fittizio di un ragionamento ideologico che non procede per categorie logiche, ma si accontenta di maneggiare complessi psichici e nessi arbitrari.
Tale atteggiamento “paranoico”, in cui prevale un modello di estrema semplificazione della realtà imposto anche dal potente apparato di produzione e riproduzione ideologica nelle mani della classe dominante, lo abbiamo visto serpeggiare in parecchi Paesi durante la pandemia di Covid-19, quando i movimenti no-vax hanno fatto parlare di sé assumendo talora la forma di una protesta sociale diffusa. Una parte di tali movimenti vedeva la presenza di elementi spoliticizzati che avevano fatto del mito delle “zero dosi” di vaccino un aspetto della loro identità esistenziale. Ma accanto ad essi si sono ritrovati “dalla stessa parte della barricata” militanti di sinistra ed elementi e gruppi di destra. L’assalto alla sede della Cgil di Roma da parte di no-vax egemonizzati da elementi dell’estrema destra è stato l’apice di un fenomeno che almeno in Italia non si dava dai tempi delle rivolta di Reggio Calabria del 1970.
L’attuale situazione internazionale caratterizzata dall’inasprirsi delle rivalità imperialiste, in cui la potenza egemone su scala planetaria si vede minacciata dall’emergere di capitalismi più giovani e dinamici, vede il maturare di contrapposizioni ideologiche che in certi ambienti politicizzati di sinistra viene etichettato in genere col termine “campismo”. Si tratta di una definizione che possiamo prendere per buona se con essa ci apprestiamo definire le posizioni, i gruppi politici e talora anche le organizzazioni sindacali, i quali assumono un atteggiamento di sostegno a un determinato “campo” di Paesi che contendono l’egemonia al declinante imperialismo statunitense, senza tuttavia manifestare alcuna riserva nei confronti delle altre potenze capitalistiche per le quali si esprime simpatia, adesione ai modelli ideologici nazionalisti da esse proposti, fino ad arrivare, nell’incoscienza più totale, a esaltarne le avventure militari.
Il campismo, cioè l’antimperialismo a “senso unico” che si oppone, o meglio pretende di opporsi, soltanto alla proiezione sulla scena mondiale della potenza statunitense, ma non a quella degli Stati rivali, è il frutto di un processo di maturazione ideologica che si è esteso in un arco storico abbastanza ampio. A preparare il terreno a tale atteggiamento del tutto antitetico rispetto al principio dell’internazionalismo proletario, è stato innanzitutto lo stalinismo che a partire dagli anni della guerra fredda ha sostituito alla visione classista tradizionale del movimento operaio, i principi di sovranità e di indipendenza nazionale e ha fatto del patriottismo – non solo delle nazioni capitalistiche impegnate nella lotta anticoloniale – un cavallo di battaglia adatto a ogni clima. Questo atteggiamento sciovinista, travisato da una terminologia pseudomarxista per mezzo della formula delle “vie nazionali al socialismo”, finiva col vedere nello sviluppo economico della propria “patria” l’unico strumento valido per promuovere il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. Di qui la retorica untuosa del cosiddetto “interesse nazionale” con la quale il PCI togliattiano intendeva subordinare la classe lavoratrice alle compatibilità del sistema capitalistico in nome di un progressismo di stampo positivista. In sostanza in alcuni Paesi occidentali dove i partiti stalinisti erano più forti, si ritrovarono ad adottare nel contesto di effervescente ascesa economica del secondo dopoguerra, una posizione per certi versi analoga a quella che nel primo dopoguerra e negli anni ’30, funestati da una grave crisi economica, era stata propria dei movimenti reazionari di massa.
Il tema del cosiddetto “socialismo nazionale”, non ha mai mancato di avere forti riflessi sul piano sindacale, dove la traduzione della formula della tutela dell’interesse generale (della nazione), consisteva nel richiamo – che diventerà sempre più insistente a mano a mano che ci si avvicinava alla fine del periodo di massima prosperità – alla “responsabilità” e alla moderazione nelle rivendicazioni salariali. Le rivendicazioni avanzate da alcune categorie, venivano tacciate spesso di corporativismo dalla Cgil a guida Pci la quale tuttavia era già allora un sindacato per sua essenza corporativo proprio nella misura in cui aveva rinunciato a operare sul territorio allo scopo di favorire l’unificazione in senso intercategoriale del proletariato per mezzo delle camere del lavoro.
A partire dalla “linea dell’Eur “adottata nel febbraio del 1978, intessuta di austerità e sacrifici per salvare la nazione in pericolo, molti lavoratori che intendevano porsi sul terreno della lotta di classe incominciarono a sviluppare la loro azione sindacale al di fuori dei sindacati tradizionali quali la triplice Cgil-Cisl-Uil che aveva tanto aiutato la classe dominante a gestire la grave crisi di accumulazione della metà degli anni ’70. Il fenomeno del sindacalismo di base negli anni ’80 nasceva sul terreno della lotta economica dei lavoratori, sfuggendo all’ingombrante tutela della politica sindacale delle forze politiche opportunistiche. Per parecchi anni i sindacati di base seppero intercettare il rifiuto della politica dei sacrifici da parte di settori cospicui del proletariato e questo aspetto mitigò le implicazioni ideologiche nazionaliste dell’austerity. Ma non risolse del tutto il problema rendendo le nuove organizzazioni completamente impermeabili all’influenza dello sciovinismo borghese. A rinfocolare la fiamma dell’amor patrio e a dividere l’insieme del proletariato fra dipendenti di Stato e parastato o del settore privato, contribuirono rivendicazioni incentrate sulla difesa a oltranza del posto di lavoro in ambito pubblico o la rivendicazione (questa decisamente sbagliata!) della nazionalizzazione delle aziende in crisi, quando sarebbe stato opportuno lottare almeno con la stessa energia per il salario garantito ai disoccupati.
Se negli ultimi decenni non sono state presenti sulla scena politica forze che fossero espressione genuina della classe lavoratrice, anche sul piano sindacale si è assistito a un progressivo slittamento dei sindacati di base verso atteggiamenti analoghi a quelli dei sindacati di regime. Se questi ultimi non si sono mai opposti alle avventure militari dell’Italia, dimostrando la loro predisposizione a sostenere un domani impegni bellici ben più importanti, non si può negare che anche nel campo del sindacalismo di base si assista a fenomeni assai preoccupanti come il caso di Usb e SI Cobas in cui abbiamo a che fare con organizzazioni sindacali sottoposte alla direzione di gruppi politici ideologicamente piuttosto omogenei. Nel caso dell’Usb è molto forte e radicata la tendenza a un campismo che anche in passato non ha esitato a schierarsi nelle guerre fra Stati con uno dei contendenti. Prima dell’attuale schieramento a favore della cosiddetta resistenza palestinese, quasi senza prendere atto della divisione classista della società palestinese e senza lasciare alcuno spazio all’interlocuzione con i lavoratori israeliani, oggi come nel passato c’è e ci fu di sovente il sostegno ad altri Stati e partiti borghesi, come il regime cubano, quello venezuelano e addirittura il regime di Assad durante gli anni della guerra civile siriana.
Anche il SI Cobas che pure aveva diretto i lavoratori della logistica per una lunga stagione di lotte rivelatesi assai fruttuose, con l’appoggio incondizionato ad Hamas e alle sue formazioni satelliti, negli ultimi tempi sembra ripercorrere la deriva interventista del sindacalismo rivoluzionario dei tempi che precedono l’entrata in guerra dell’Italia nel primo conflitto mondiale. Molti dei lavoratori di quel sindacato vengono da paesi arabi o musulmani e la direzione politica del SI Cobas pensa di tenerli meglio uniti sventolando la bandiera nazionale palestinese piuttosto che quella rossa dell’internazionalismo proletario. I risultati sono disastrosi dato che in tal modo ci si isola dalla grande massa dei lavoratori, siano essi autoctoni o immigrati, che provano un sano senso di orrore tanto per l’atroce e ininterrotta carneficina di Gaza e di Cisgiordania compiuta dall’esercito israeliano, quanto per l’attacco del 7 ottobre che ha colpito in maniera indiscriminata la popolazione israeliana e i lavoratori asiatici immigrati in Israele.
Nell’attuale contesto internazionale caratterizzato da guerre sanguinose e devastanti, si tratta di contrastare la diffusione della peste nazionalista tra le file della classe lavoratrice che deve trovare un antidoto a queste nefande influenze nel ritorno all’internazionalismo proletario. Per fare questo occorre essere consapevoli dell’accanimento con cui i campisti di oggi, magari riproponendo la ferocia degli interventisti del 1914, tenteranno di inquadrare i lavoratori nella prossima preparazione bellica per distoglierli dalla lotta per i loro interessi di classe che include in primo luogo un’opposizione agguerrita e senza esitazioni a tutte le guerre del capitale.
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